A volte ritornano…
Ecco che ritorna l’eco delle avventure di quel “gruppo di avventurieri la cui fama arrivava molto prima di loro”.
Memoria delle nostre serate (e nottate) di D&D.
Con le radici nella nostra piena adolescenza.
Un progetto ormai storico che non è mai stato portato a termine, che probabilmente significa qualcosa solo per chi c’era. Ma che sarebbe stato un peccato buttare completamente.
Guardiamo che si può fare….
andrea.prof

Memorie di un gruppo di avventurieri
la cui fama arrivava ovunque
ancor prima di loro

Opera a 5 mani, composta in onore dell’arciduca Stefano Leopoldo di Karameiokos

Buonasera a voi giovani avventurieri che ignari del pericolo e delle terribili creature che vivono nell’ombra, vi siete gettati i capofitto nella magia. Prima di vedervi cadere nel vano tentativo di imitarmi voglio invitarvi a tornare indietro, finche siete ancora in tempo, prima che…

Prima o poi devo ucciderlo. Non sopporto chi mette mano alle mie carte, soprattutto se quel qualcuno è il mio “fido” (che non è un cane) capitano. Da quando disgraziatamente io e il mio compagno lo assoldammo, non ha fatto altro che rompere i coglioni a tutti. Addirittura è riuscito a rovinare l’inizio di quella che sarebbe potuta divenire la più grande opera di tutta la storia.

Vabbè, ormai il danno è fatto non mi resta di fare altro che raccontare…

Intanto mi presento, mi chiamo Cabala della Luna, nome sborone, vero(?!?), sono barone, forse arciduca, ma in verità faccio il traghettatore (molti dicono abusivo, ma sono tutte dicerie: il permesso l’ho portato con me in un mio recente viaggio, la chiatta si è scapottata e si è distrutto, ahimè). Il capitano di cui orora vi parlavo è Findus, figlio di un produttore di pasta dentifricia. Quel bastardo, oltre aver scritto l’incipit della nostra storia, si è anche permesso di rubarmi l’oro necessario per farsi la plastica. Personalmente lo trovavo molto più attraente con la barba bianca, e non con quel visino da supereroe che ha adesso. Se era per lui avrei dovuto vendere il mio galeone “Il Peschereccio Azzurro” per acquistare una nave volante, ma non mi sono fidato delle sue parole (“…con quella si che rimorchiamo qualche bella giovane halfing!…”). Quel perverso!

Cecidere manus.

A certa gente dovrebbero togliergli il diritto di prendere in mano una penna (d’oca, ovviamente).

Nei testi letterari “cecidere manus” significava che l’autore non aveva avuto la possibilità di porre termine alla sua opera, ma chissà in questo caso perché le mani di Cabala sono cadute. Forse saranno giunti nuovi clienti alla sua chiatta, forse sono improvvisamente sorti piacevoli impegni galanti. Ma è molto più probabile che si sia stancato di scrivere, attività troppo nobile per un nobile troppo recentemente acquisito, e se ne sia andato in giro per il paese a svuotare le tasche dei signorotti.

Già tempo fa questa cosa gli costò caro …e fu la più grossa fortuna della sua vita.

Era un ladruncolo di strada, non ancora iscritto a nessuna gilda dei ladri, e Stefano Leopoldo era appena salito al trono granducale di Karameikos, dopo che suo padre se ne era fuggito al sud con una ballerina elfica. Cabala si divertiva, per fare pratica, a perquisire le tasche di tutti coloro che giravano ben vestiti per La Soglia. Se aveva fame li svuotava anche, ma si trattava soprattutto di una palestra, per potersi presentare un giorno all’Università dei Ladri a dare l’esame di Borseggio e Frode e laurearsi in Truffe Plurimorfe.

Mentre faceva questo gioco si imbatté in un orchetto vestito di velluti blu, una bestemmia agli occhi del buon gusto. Si avvicinò a lui, gli perquisì le tasche, lo alleggerì di alcune monete d’oro e di una pesante catena con un simbolo strano disegnato sopra e volle strafare: gli infilò una mano sotto il corpetto e gli slacciò la cintura di cuoio che sosteneva gli spessi bragoni di velluto.

L’operazione riuscì, nel senso che i pantaloni vennero slacciati e lasciarono il bitorzoluto membro dell’orchetto pendulo sotto le occhiate schifate dei passanti, ma la vicinanza di Cabala nel momento dell’apertura del sipario insospettì l’adamitico mostriciattolo e procurò a Cabala un brutto incontro con la sua mazza.

Quando riprese conoscenza Cabala era all’interno di una cella: conosceva bene l’odore di muffa misto a piscio e il sottofondo di gemiti e di brontolii. Anche troppo bene.

Appena sveglio si guardò intorno. Un umano dalle dimensioni imponenti se ne stava seduto sul letto con lo sguardo disperso nel vuoto, fissando il muro un metro sotto la presa d’aria della cella.

Un elfo e un altro umano stavano giocando a carte seduti per terra, senza troppo entusiasmo.

Nella cella a fianco c’erano un nano che girava sbuffando avanti e indietro, tirando ogni tanto corti calci ai piedi della sua branda, e un altro umano intabarrato in un mantello nero, chino su un grosso libro di cuoio.

“Dove sono finito? Al dopo lavoro della gilda del porto?” chiese Cabala accarezzandosi la nuca.

“Il bambino si è svegliato.” La voce del nano era già alterata. Fermò la sua continua passeggiata avanti e indietro e guardò l’esile corpicino umano del ladro.

“Senti chi parla … in piedi faresti fatica a farmi una pompa!”

Il nano balzò in piedi e si attaccò alle sbarre che dividevano le due celle sbraitando qualcosa su quello che gli avrebbe fatto se gli avesse messo le mani addossò. Qualcuno fece notare che con le sue mani poteva sì e no abbracciare il ginocchio di una persona normale, e questo ebbe l’effetto di farlo incazzare ancora di più.

“Calmati gigante, se no ti verrà un colpo.” l’elfo aveva smesso di giocare a carte e si stava dirigendo verso il nano “Non ci siamo già visti da qualche parte, piccola montagna di lardo?”

Il nano era già arrabbiato per le parole del ladro. Sentire un elfo che si burlava del suo aspetto lo mandò in bestia.

“Datemi un coltello che faccio una strage! Basta anche un coltello da cucina per scaraventare nell’Ade queste due femminucce!”

“Non mi riconosci Taranis, grosso imbecille rugoso. Sono Eldan, tuo fratello.”

Il nano si placò di colpo. Ma alla notizia si agitarono gli altri componenti dell’allegra compagnia: “Fratelli? Non c’è qualcosa di anomalo?” la voce dell’uomo col libro era serenamente preoccupata.

“Vi siete mai accorti di non essere proprio …uguali?” era l’umano che giocava a carte con Eldan.

“E’ una storia lunga” rispose l’elfo “tanto lunga che questa testa cava pare si sia dimenticato di me!”

I due si scambiarono un abbraccio.

Da quel momento il clima all’interno della cella divenne più conviviale e si approfittò dell’occasione per presentarsi agli altri. L’uomo col libro era un chierico, assai anomalo in verità visto che sotto la copertina di cuoio che sembrava celare un breviario serbava disegni tutt’altro che morali raffiguranti fanciulle elfiche in pose compiacenti, e il suo nome completo era don Fideiussione Batman (della dinastia dei Biffi, ovviamente).

L’uomo che aveva giocato a carte con Eldan, il cui nome completo, ormai che siamo in argomento era Eldan Gil-Eriador dei Marlock (ramo cadetto della casata degli Handor), si chiamava Axel ed era stato un membro della guardia granducale.

Anche la montagna collassata sul letto era un guerriero, ma il rapporto tra mole fisica e cervello era uguale allo stesso rapporto calcolato su di un bambino di 6 anni e questo andava nettamente a dispetto del suo cervello. Si chiamava Farandis, e nessuno riuscì a capire esattamente chi fosse e da dove venisse.

Cabala e Eldan, tanto per passare il tempo, cominciarono a fare con lui un gioco curioso: approfittarono del fatto che il gigante stesse impiegando tutte le sue energie mentali per dire il suo nome e per parlare un po’ di sé per mettersi seduto ai suoi fianchi. Il gioco consisteva più o meno in questo: Eldan metteva un pugno di sassolini dentro le sue tasche, Cabala gliele svuotava un po’ alla volta, tutto ovviamente senza che Farandis si accorgesse  di nulla.

Poi, come tutti i giochi, anche questo dovette finire per non procurare ad entrambi un’orchite fulminante, e i due preferirono mettersi a parlare con gli altri del motivo per cui erano stati rinchiusi in quelle celle.

Il chierico era stato sorpreso in atteggiamenti equivoci in compagnia di una delle sacerdotesse del chierico Zanzer, padrone delle celle di cui erano tutti ospiti (in realtà solo un vegliardo rincoglionito come Zanzer poteva ritenere quel groviglio umano che aveva sorpreso all’interno del confessionale un “atteggiamento equivoco”!).

Di Cabala sappiamo già il motivo per cui egli si trovava lì, ma quando a conoscerlo fu la Compagnia tutti proruppero in grasse risate: che il capitano delle guardie del Gran Sacerdote fosse stato spogliato sulla pubblica piazza era un evento tutt’altro che ordinario.

L’elfo aveva truffato il mago di corte, insegnandogli a produrre una miracolosa pomata capace di triplicare le emorroidi su cui veniva applicata. Il problema era stato che il culetto destinatario del farmaco era stato proprio quello di Zanzer.

Il nano era stato assoldato per adornare le gallerie del castello del Sacerdote, e, quando si sentì rifiutato il compenso per il proprio lavoro, cominciò subito ad arraffare alla meglio i preziosi sparsi per il castello. Alle guardie non piacque più di tanto che lui lasciasse il castello con un enorme sacco nero sulle spalle…

Ad Axel, rinchiuso perché faceva parte di un ambasceria mandata dal Granduca per alcune voci riguardati un chierico di provincia con alcune ambizioni imperiali, la prigione cominciava a stare un po’ stretta. “Siamo tutti uomini d’azione. Usciamo, uccidiamo il perfido Zanzer, arraffiamo tutto quello che riusciamo a portarci dietro e ci presentiamo dal Granduca con la testa del suo nemico. Tanto oro e un nuovo lavoro per tutti. Potremmo anche diventare i solutori di grane ufficiali del Granducato!”

“Basta!!!” la voce potente del gigante aveva interrotto le risate del gruppo. Farandis si alzò di colpo e incominciò a guardarsi attorno. “Chi mi sta rovistando nelle tasche?” Si guardò intorno con aria sempre più inebetita. “Forse stato tu?” disse indicando Eldan.

“No, no. E’ stato lui!” rispose l’elfo indicando Cabala, che per qualche secondo se la vide davvero brutta.

“Calmo, montagna.” Intervenne il nano ” A parte che tutto questo è successo almeno tre ere geologiche fa, poi vieni qua con noi e dacci una mano ad uscire di qua”.

Il guerriero si avvicinò e porse la mano al di là delle sbarre, sorridendo. “Mano…”

“Sì, va bene …mano.” Tutti si chiesero cosa avesse fatto per meritarsi la cella. Forse si era seduto su dieci orchetti della guardia di Zanzer?

Il piano concordato fu semplice: scesa la notte, si sarebbe attirato con una scusa qualunque l’hobgoblin carceriere e Farandis, nascosto al di fuori del cono di luce lunare proiettato dalla finestrella, lo avrebbe strangolato con le sue manine. Poteva funzionare.

Infatti così andò.

A ricordo dell’impresa rimase soltanto un hobgoblin con gli occhi fuori dalle orbite steso sul pavimento della cella.

Anche con Zanzer le cose non andarono molto diversamente da quello che si era programmato. Solo il povero Axel cadde gloriosamente sul campo, per dare agli altri il tempo di massacrare di botte il perfido chierico.

A corte vennero ricevuti con grandi onori, coperti d’oro e circondati di fameliche nobildonne desiderose di assaggiare il sapore dell’avventura (e di verificare sul nano ciò che si raccontava della sua genia).

Quella fu la prima azione di un gruppo di avventurieri destinato a diventare davvero il braccio armato personale del Granduca Stefano Leopoldo, che si servì di loro per risolvere tutte le grane che, con grande frequenza, piovevano sul suo territorio.

A ciascuno di loro venne assegnato un piccolo possedimento nei pressi di Kelven. Farandis costruì un piccolo maniero in via Elwin l’Ardente (così battezzata per ricordare una sanguinosa campagna). Cabala varò la sua chiatta su cui vive tuttora, col nome di “Nella Vecchia Fattoria” (IA IA OH), mentre l’elfo preferì stabilirsi in una piccola casa colonica in legno, paglia e muratura a cui diede il nome di Boccadirio (nome di una mitica località in cui tutti desideravano andare). Don Fideiussione abitava invece ad Heaven, in paese, in una piccola abitazione adibita anche a tempietto, dal curioso nome “Brunelleschi?”, quesito fondamentale della fede professata dall’originale chierico.

La storia di questo gruppo è molto intricata: è piena di sacerdoti gay, di affamati animali preistorici, di caecilie, di uomini scorpione destinati a vedersi piovere nella loro dimora ogni schifezza possibile ed immaginabile, di amicizie influenti con gli immortali, di trogloditi laureati, di pozioni blu e di incantesimi “cacca e piscia con chiavistello magico sulle braghe del nano”.

Ma tutte queste cose fanno parte di altre storie, ed è meglio che altri ve le raccontino.

Qui c’è grossa crisi?!?           

(questo è un vero reperto archeologico …grazie a Fede!!!)

Quando raggiunse il pavimento di cotto dell’antica città di Misa, rimbombò per venti o trenta secondi buoni.

– È ora! – Don Batman stava pregando i suoi antenati della gloriosa dinastia dei Biffi dinnanzi al suo tabernacolo prediletto quando d’improvviso questo cadde andando a sbriciolarsi ai suoi piedi. Un brivido gelato gli attraversò il corpo.

– È ora! – Il chierico era particolarmente attaccato a quel tabernacolo: gli era stato donato dal suo discepolo prediletto, Iacopone da Todi, di ritorno dalla Terra del Giglio, nella penisola pontificia, dopo due lustri di pellegrinaggio alla ricerca della frusta più lacerante che potesse purificarlo dal modo turpe con cui, impugnando una penna, tentava di intessere pregevoli lodi a “Brunelleschi?”.

– È ora! – In verità, il chierico doveva avere quantomeno qualche perplessità sulla solidità del suo gingillo sacro dal momento che più di una volta era stato messo in guardia dai fabbricanti di arredi sacri dai quali si riforniva di solito.   

– Guarda che un affare con quella forma non può stare su! È impossibile. Le cupole vanno fatte semisferiche oppure crollano. Compra uno dei nostri tabernacoli con la cupola rotonda e vedrai che non si romperà mai. –

Don Batman non aveva ancora aperto gli occhi dopo la caduta della sua cappella (non è una volgarità!) ma sentiva un’arietta lieve che gli accarezzava il volto, quasi un vento sottile che lo fece riavere dalle sue meditazioni.

– È ora, non è vero? – Quando aprì gli occhi, vide il suo fidato pipistrello, Gemon V della ormai epica dinastia dei Vamosalaplaja che gli svolazzava a cinque pollici dal naso. – Anche tu hai avvertito il richiamo del Granduca, non è vero? – Gemon annuì con la sua testina nera, dopodiché si andò a posare sul davanzale della finestra posta a occidente.

Con fare flemmatico, il religioso si alzò dal suo tappeto persiano trovato per caso su un galeone antico qualche lustro prima e guardò il cielo dalla finestra.

Il nero della notte di Heaven, così uniforme e perfetto, senza neanche una stella a rischiararlo, si era macchiato improvvisamente di una luna artificiale: a occidente, in direzione del Granducato di Karameikos, brillava un cerchio di luce biancastra con al centro un enorme pipistrello nero che stava ad ali spiegate.     

Era il segnale in codice concordato con il granduca e da questi usato ogniqualvolta aveva bisogno dei suoi beniamini per sbrogliare qualche fastidiosa bega di corte o qualche rogna oltre confine.

Ogni volta che quel faro nella notte si accendeva, non annunciava nulla di buono, ma questa volta Fideiussione aveva captato ancor prima di vederlo qualcosa di più terribile del solito.

Il suo tabernacolo non aveva ceduto da solo (alla faccia di quegli sporchi arraffoni di costruttori di tabernacoli di Neapolis!), ma era stato Gemon che dall’agitazione lo aveva urtato con l’aluccia destra.

– Si preannunciano grossi guai stavolta, vero mio fidato amico? – Effettivamente Gemon era ormai abituato a vedere la sua effigie nella notte, anzi si stimava tutto. L’idea del simbolo da usare in caso di emergenza era stata sua e per questo aveva chiesto al Granduca di adoperare lo stemma della sua casata.

Ma questa volta il suo intuito di animale lo aveva spaventato a morte. Cosa mai poteva volere Stefano Leopoldo di tanto pericoloso dai suoi uomini più fidati? Non restava che accertarlo, e anche in fretta.

– Gemon, va’ dal Granduca e fatti consegnare la pergamena con la missione da compiere e io intanto avverto i nostri amici. Ci vediamo a Kelven da Cabala. Va’, veloce e che “Brunelleschi?” ti pedini. –

Il volatile rispose alla benedizione del suo padrone e lasciò il tempietto dalla stessa finestra da cui avevano visto quel faro nella notte che peraltro era ancora là, stampato, immobile, brillante, proprio com’è il disco solare di giorno.

Il chierico si avvolse nel suo mantello sbrindellato di iuta antiladro (chi mai deruberebbe uno che dall’aspetto sembrasse un povero ubriacone che non ha nemmeno i soldi per la sbornia serale…) e si diresse verso “NellaVecchia Fattoria” (IA IA OH) per avvertire Cabala dell’accaduto.

*   *   *

All’esterno dell’abitazione galleggiante di Cabala non gli si sarebbe dato una moneta di rame: brutta, rozza, quasi fatiscente, sembrava una baracca galleggiante che dovesse affondare da un momento all’altro; ma appena questi spalancava l’uscio, venivi colpito all’occhio da una luce abbagliante che ti pugnalava a tradimento e solo se sapevi di dover chiudere gli occhi e aprirli lentamente per fare l’abitudine a così tanta luminescenza, non rimanevi accecato.  

Cabala diceva che il loro codice etico di ladri impediva di rubare in casa di un altro ladro o ex-tale, ma visto il suo hobby un po’ costosetto, era meglio dare l’impressione di essere dei poveretti dall’esterno della casa per evitare brutti scherzi.

Il Granduca aveva tenuto segreto a tutto il popolo le residenze dei suoi eroi per due motivi fondamentali e contrapposti: non voleva che un continuo assedio di gente acclamante davanti alla loro porta li disturbasse nei brevi periodi di riposo in cui non erano in giro per il mondo e ancora più importante, avendo lo staff migliore di “sbrogliacasini”, voleva evitare che qualche nemico sfuggito ai controlli delle guardie poste alle mura delle città ficcasse qua e là nei loro punti vitali qualche coltello nel sonno.

*   *   *

– Scommetto che non sei venuto a bere una buona coppa di sidro, vero? -, cominciò il traghettatore più nobile di tutta Kelven.

– Ti piacerebbe, vecchio furfante, eh? –

– Ehi prete, modera il linguaggio! Io non sono affatto vecchio. –

– A cosa stai lavorando questa volta? Vedo che il blocco di diamante è assai grosso. –

Infatti l’hobby di Cabala definito prima costosetto era la scultura, ma non di marmo o di legno o di bronzo come accade per tutti i normali scultori, ma di pietre preziose. Diceva sempre che le cose brutte e i materiali poveri proprio non gli piacevano. Si procurava la pietra grezza e la scolpiva solo (a suo dire) quando aveva l’ispirazione.

In verità nessuno dei suoi compagni aveva mai capito qual era la differenza tra Cabala-ispirato e Cabala-non ispirato: spesso si erano riuniti a casa sua per programmare le missioni e capitava che a volte lui scolpisse rumorosamente (con puntuale disappunto di Taranis cui non sembrava vero di avere un motivo ufficiale per litigare con qualcuno) e altre in cui si limitasse solo a interrogare Farandis sulle addizioni e sottrazioni con somma gioia di Eldan che non riusciva a restare serio alle facce contorte del gigante alla disperata ricerca del suo encefalo latitante.

– Il Granduca mi ha commissionato il trofeo per il Regale Torneo primaverile di Arti della Guerra del Granducato di Karameikos dell’anno prossimo e visto che non siamo mai a casa, ci lavoro quando ho tempo. Ma dimmi cosa sai della prossima missione. –

– Ancora niente, ma non si preannuncia nulla di buono. Ho mandato Gemon da Stefano Leopoldo per ritirare la pergamena non prima di averlo calmato ben bene. Era terrorizzato e quel che è peggio, è che non l’avevo mai visto così. –

Gemon V era già il terzo pipistrello della sua dinastia che viveva con il chierico, e già prima di lui il padre e il nonno. Dieci lustri fa Fideiussione vide Gemon III, il nonno, che sembrava impazzito proprio come oggi era capitato al nipote. Si trattava della volta in cui l’animale percepì la presenza di un drago rosso, uno degli animali più pericolosi e feroci dell’intero pianeta (in)civilizzato. Davanti a una bestia simile puoi solo scappare perché quelli che hanno tentato di affrontarla, hanno lasciato il loro sguardo fiero di grandi guerrieri compassati abbarbicato sulle unghie della bestia. In cuor suo il religioso non se la sentiva di affrontare un drago rosso, tanto più che non ne aveva mai visto uno e ne conosceva l’aspetto solo per sentito dire di pochi individui.  

– Per tutte le tegole della Cappella! Questa non ci voleva. Una missione così difficile prima che abbia finito il mio trofeo. E se dovessi morire, chi lo completerebbe? –

– Tanto per cominciare, non bestemmiare in mia presenza, brutto zuccone! E poi, quello che ti viene in mente a una simile notizia è la tua stupida scultura? –

– Stupida magari sì, ma molto proficua! –

Tutto ad un tratto si sentì tremare la casa, come per un terremoto, ma il punto da cui proveniva il sisma non era il suolo, ma la porta, cosicché i due furono costretti contro voglia a pensare che Farandis stava bussando.

– Ehi, brutto neandertaliano senza cervello, vuoi far crollare la mia casa? Se io fossi alto almeno dieci piedi in più, ti busserei io su quella testaccia vuota. –

– No arrabbiato tu… – fu la risposta.

Con lui c’erano anche Eldan e Taranis e sulla spalla destra di quest’ultimo Gemon che aveva avvertito tutti.

Cabala colse subito l’occasione per sdrammatizzare il quasi crollo della sua chiatta e per vendicarsi di qualche vecchia battuta del nano: – Ehi Taranis, con Gemon sulla spalla sei quasi alto come il manico di una ramazza! –

– Se vuoi la ramazza te la infilo dove so che ti piacerebbe molto… –

Eldan placò subito la lite sul nascere: – Finitela! Ho in mano la pergamena di Stefano (lui era l’unico che aveva confidenza col Granduca e che aveva il permesso di chiamarlo così). Ora la leggo:

miei cari amici e fedeli compagni,
oggi e’ davvero un giorno nefasto per il Granducato di Karameikos. Vedo delle nuvole molto tetre all’orizzonte e quel che e’ peggio, e’ che forse nemmeno voi potrete rischiararlo da esse. Da quando siete al mio servizio, avete vagato per le terre di mezzo mondo alla ricerca di nuovi, strani mondi, la’ dove nessun essere e’ mai giunto prima. Avete salvato innocenti, annientato essere malvagi, avete raccolto ricchezze per voi e per Me.
Ma questa volta il pericolo rischia di annidarsi proprio qui a Karameikos. Oggi quelli minacciati siamo noi e la nostra florida terra, che per il suo sviluppato modello di governo e per le sue innumerevoli liberta’ di cui Io da sempre mi sono fatto garante , rischia di essere spazzata via dalla tirannide di pochi invidiosi e malvagi individui.
La vostra missione, se deciderete di accettarla, sara’ quella di andare incontro al manipolo di uomini che si sta avvicinando a grandi passi al Granducato (i miei informatori li hanno visti a soli dieci giorni da qui) e di fermarli prima dell’ingresso in citta’. Sono venti uomini, assoldati da Portio lo Smodato tra la feccia peggiore del pianeta: assassini, soldati di ventura, sicari prezzolati, con rispettivi eserciti mercenari al seguito; guerrieri che non temono la morte per un pugno di monete  di platino, È inutile sottolineare che quella e’ gente priva di scrupoli e che se riuscisse a impadronirsi della nostra terra, non farebbe di certo ne’ schiavi, ne’ prigionieri.
Questo messaggio e’ scritto su carta speciale e per questo si autodistruggera’ tra cinque secondi…

Terminata la lettura della pergamena, Eldan la appallottolò e la infilò con un gesto lestissimo nella tascona anteriore di Farandis che non si accorse di niente e dopo i ventilati cinque secondi, la lettera esplose costringendo il gigante a saltellare dal male alle parti intime per svariati minuti.

Nonostante la scena avrebbe fatto ridere a crepapelle anche la persona più risolutamente seria, i quattro restarono immobili e ammutoliti. Solo Cabala non riusciva a nascondere del tutto il sorrisetto per la scena comica, ma quando anche Farandis si fu calmato, iniziarono le riflessioni di rito.

Esordì Don Fideiussione: – E’ grave proprio come temevo. Prima, a casa mia, quando pregavo, ho sentito un fremito che mi ha attraversato la schiena. Un brivido così forte l’ho provato solo tre anni fa quando una donna del Siam mi ha massaggiato la schiena (e non solo quella…) con dell’olio di fiori di loto. Non si tratta di un drago rosso, ma mi fa pisciare addosso ugualmente. –

– Qui siamo veramente in un mare di merda, altroché! -, ribatté il nano. – Io ho sempre combattuto perché sapevo di essere un super guerriero, ma non è bello pensare che potrei lasciarci la dannata pellaccia, questa volta. –

– E dove si è mai visto un super guerriero che non arriva nemmeno alle palle dei suoi nemici? -. Cabala sembrava proprio in cerca di un fendente alla gola; forse nascondeva così la sua agitazione per il contenuto della pergamena.

volta Taranis cercò di fare il superiore (peraltro essere superiore intellettualmente era l’unico modo che aveva per essere superiore a qualcuno, vista la sua altezza [o meglio, bassezza] fisica!!!).

– Per tutti i Ghiberti ladri di progetti! –

– Ehi Farandis, te ne sei stato zitto per tutto il tempo e la prima cosa con sai esordire è una bestemmia? –

– Scusa Don Batman, ma volevo partecipare anch’io allo sconf.., sconforss…, sconfssz, insomma, alla tristezza . –     

– E’ giusto, ma fallo senza offendere la parola del nostro Salvatore “Brunelleschi?”. Va bene? –

Il guerriero calò di nuovo in un silenzio perplesso, come se stesse pensando a… come se non stesse pensando a nulla, che poi era la norma per lui.  

– Sì, ci vorrebbe proprio un santo per salvarci questa volta. – ironizzò Eldan che tra tutti era il più perspicace.

Eldan era la mente del gruppo e suo fratello Taranis, per prenderlo in giro, diceva di non montarsi la testa che la sua intelligenza in più serviva a bilanciare la stupidità del guerriero Farandis.

*   *   *

Tanto valoroso in battaglia quanto tranquillo nella sua tenuta di Boccadirio, l’elfo trascorreva tutto il suo tempo a perfezionarsi nell’arte della magia per raggiungere la vetta della perfezione. Già l’amico Granduca lo aveva nominato Gran Maestro di Pokemon della provincia di Karameikos e questo inorgogliva lui, ma anche il fratello Taranis che, benché non lo desse a vedere, amava molto il fratello.

I due nacquero da stessa madre elfa ma da padri diversi.

Eldan vide la luce in uno dei pochi periodi di pace dell’antica provincia governata dal padre re. Questi era un buon reggente, si faceva amare dal suo popolo, ma come spesso capita ai regnanti giusti e pacifici, doveva comunque tenere a bada le spinte espansionistiche e tiranneggianti di alcuni sudditi malvagi che soffrivano di acuti attacchi di allergia provocati dai periodi di pace dei regni. Effettivamente per loro la pace non fruttava come la guerra; chi poteva essere interessato a comperare armi per migliaia di monete d’oro se nessuno le avrebbe utilizzate per lustri?

In seguito a una congiura architettata dal nano Friskies, il più importante mercante di armi della provincia, il padre di Eldan, re della casata di Marlock, perse la vita pugnalato nel sonno da una guardia della corona corrotta a suon di monete d’oro. Friskies si fece incoronare imperatore e, oltre al trono della provincia, fece sua anche la regina madre di Eldan che diede alla luce dopo pochi mesi Taranis. I due fratelli furono però astutamente divisi dal nuovo re per evitare che una loro alleanza in età adulta, potesse fermare le sue mire espansionistiche. Voleva che la guerra fosse il nuovo credo della popolazione sottomessa che ormai non sopportava più il peso delle tasse che servivano unicamente a finanziare le costose campagne militari. I due furono allontanati e fatti crescere negli angoli opposti del pianeta. Istruiti fin da piccoli nelle arti della letteratura e della filosofia, i due raggiunsero molto prima del tempo previsto dai loro precettori la laurea in tali materie. Il richiamo del sangue guerriero, però, non si era mai completamente assopito e nonostante i due fratelli fossero sempre circondati da stoffe pregiate, arazzi provenienti dalla Persia antica e da musicisti di lira, si avvicinarono entrambi segretamente all’affascinante arte della guerra e del combattimento, oltre che alla magia. Tutto era stato ben studiato per evitare una possibile futura rivoluzione capeggiata dai due fratelli uterini. 

Quel piano astuto avrebbe potuto anche funzionare se non si fosse messo di mezzo il caso che non abili giochi di prestigio, cominciò a scombussolare i piani del Dittatore (come amava farsi chiamare il padre di Taranis dai suoi sudditi). Eldan prima e Taranis qualche anno più tardi fuggirono dai loro rispettivi palazzi per arruolarsi in eserciti di ventura. Fu davvero un caso che fece scoppiare la guerra tra gli emirati di Addis Abeba e di Asmara: il primo vantava un diritto di successione sul trono dell’altro che naturalmente negava tale titolo. Il caso portò poi entrambi i fratelli a combattere per lo stesso esercito, anche se in reparti diversi.

Fu davvero bravo il caso a far cadere in un’imboscata dell’esercito di Asmara, tre reparti nemici tra cui i due dei fratelli che furono catturati e rinchiusi in una segreta con altri trentuno fra uomini, elfi, nani e hobgoblin mercenari in attesa dell’esecuzione del giorno seguente. Ma dove il caso diede davvero il meglio di sé fu in cella, dove a sorvegliare i prigionieri, finì proprio quel gruppo di guardie assai depravate col pallino del sesso selvaggio, tanto che ordinarono a cinque prigionieri di spogliarsi completamente nudi. La somma di tutti questi casi della vita (o forse un preordinato disegno superiore del grande “Brunelleschi?”, come dice sempre il chierico quando racconta questa storia ai bambini di Heaven!) volle che tra i futuri sodomizzati vi fossero i due fratelli che riconobbero l’uno sulla schiena dell’altro il variopinto tatuaggio dello stemma reale della casata comune di Marlock fatto eseguire in gran segreto dalla madre dei due la sera prima della loro separazione.

Dall’istante in cui i due si riconobbero fratelli di sangue a quello in cui le guardie furono sventrate con un pugno da Taranis mentre Eldan le teneva strette, il passo fu piuttosto breve.

Chiarito il disegno macchinoso e malefico del dittatore-padre-patrigno, e capito che gli errori dei genitori non possono ricadere come una mannaia sulla testa dei figli, tornarono a casa e la liberarono dal gravoso regime di polizia e di pulizia che era stato instaurato.

Per un lustro e mezzo governarono insieme in assoluta parità, fino a quando la vita troppo tranquilla non li portò di nuovo a lasciare la casa come era avvenuto già in passato, per tornare al fascino magnetico dell’avventura, fino a passare da regnanti a sudditi di Karameikos.

*   *   *

– Sì, ci vorrebbe proprio un santo per salvarci questa volta. – ironizzò Eldan che tra tutti era il più perspicace.

– Dieci giorni sono proprio pochi per organizzare una difesa adeguata alla furia di quei folli soldati. – commentò amaramente Cabala che ora non aveva più molta voglia di scherzare.

Il silenzio di quella sera di Kelven sulla chiatta nel fiume fu spezzato solamente dopo alcuni minuti da due parole: – Diecciggiorni, diecciggiorni… –

Era Farandis che sembrava non rendersi conto che la fine delle loro esistenze e di quelle di tutte le persone che li amavano, poteva essere pericolosamente vicina.

*   *   *

Il padre di Farandis, guerriero instancabile come lui e morto gloriosamente sul campo di battaglia quando il figlio aveva solo sette anni, soleva dire spesso che al figlio era capitato l’inverso di quello che succede di solito a quella razza di cane che non gli veniva mai il nome! Diceva: – Ci sono dei cani che si ferma la crescita della scatola cranica, però gli continua a crescere il cervello; così dopo un po’ diventano idioti e impazziscono (queste erano le testuali parole del padre: diventano idioti e impazziscono!). A te ti è successo l’opposto: la scatola cranica ti è continuata a crescere mentre il cervello ti si è fermato, così quando scuoti troppo il testone, fai sballonzolare il cervellino di qua e di là rompendo tutti i meccanismi e facendoti diventare idiota (i cani diventano idioti e impazziscono, lui idiota e basta; queste le testuali parole del padre). –

Nonostante il figlio non fosse proprio una cima (mentre lo era diventato nell’aspetto fisico), lo amava tantissimo e faceva il possibile, per quanto poteva e quando non era in giro a far guerre, per evitare che Farandis seguisse le sue orme di guerriero.

La vita del guerriero era dura e il padre aveva paura che il figlio fosse troppo debole mentalmente per sostenerla.

La morte del padre lo scosse molto e si trovò ad affrontare una vita da orfano e da adulto già a sette anni, dato che la madre era morta dandolo alla luce. Una vita da adulto che non riusciva a imparare, dapprima a causa della sua giovane età, e in seguito per colpa della mancanza o deficienza di sostanza grigia.

Non si può dire che non fosse la classica figura di gigante buono, ma questo solo quando incontrava brava gente che lui aiutava instancabilmente e senza pretendere mai nulla in cambio. Il problema però nasceva quando veniva abbindolato dalle decise e convincenti parole dei generali di esercito che lo usavano come soldato di sfondamento data la forza sovrumana che lo muoveva. Farandis combatteva sempre per qualcuno e mai per se stesso; di fatto passava da una galera a un’altra, lui che non riusciva a capire la differenza tra il bene e il male da solo, e per questo si trovava spesso a uccidere senza sapere neanche lui il motivo vero.

Però, dopo l’incontro con i suoi amici di avventura, aveva abbandonato la smania di errare da una provincia all’altra e si era stabilito con loro. Combattere per lui era la vita e non c’era niente di meglio di Eldan che preparava i piani insieme agli altri e lui che li metteva in pratica alla lettera. Quello sì che gli veniva bene. In più, ora era stimato e aveva dato il nome a una via in cui viveva come un re (agevolato forse dal fatto che ci viveva da solo!).

Non aveva mai paura delle nuove missioni, anche se aveva imparato a essere triste e preoccupato quando gli altri erano tristi e preoccupati e felice e sorridente quando gli altri erano felici e sorridenti. Era poi divenuto un maestro nell’arte della simulazione di sguardi intelligenti e a casa si esercitava per ore davanti allo specchio (regalo di Fideiussione; il primo non ebbe vita lunga: fu scaraventato contro al muro quando Farandis vide un omaccione grande e grosso come lui davanti ai suoi occhi. Il secondo ebbe più fortuna forse perché Taranis spiegò per ore al guerriero che quell’uomo non era altro che la sua immagine riflessa).

*   *   *

Quello doveva essere un momento in cui essere triste e preoccupato.

– Sì, ci vorrebbe proprio un santo per salvarci questa volta. – ironizzò Eldan che tra tutti era il più perspicace.

Il silenzio di quella sera di Kelven sulla chiatta nel fiume fu spezzato solamente dopo alcuni minuti da due sue parole: – Diecciggiorni, diecciggiorni… –

Era Farandis che sembrava non rendersi conto che la fine delle loro esistenze e di quelle di tutte le persone che li amavano, poteva essere pericolosamente vicina.

Comincia l’avventura, e ora si fa dura

Un profondo silenzio calò attorno al gruppo di amici. I loro pensieri giravano pesantemente nelle teste, talmente forte che si aveva quasi l’impressione di poterne sentire il rumore. Di una cosa si era certi, in una sola delle loro menti, questo trambusto cerebrale era totalmente assente (non c’è bisogno di fare nomi per capirci, vero ! !).

Cosa fare, a che santo appellarsi; questa volta pareva molto dura per il regno di Karameikos uscirne totalmente salva, quante persone avrebbero sofferto in questo Granducato calato da decenni in un’atmosfera di pace e prosperità, tranquillità dovuta anche alle gesta dei nostri eroi. E proprio quest’impotenza bruciava nei loro animi, dovevano trovare una soluzione.

*      *     *

“Ce l’ho io la risposta ai nostri problemi, amici” disse Taranis squarciando con il suo vocione il silenzio spettrale creatosi nella stanza. Otto occhi si girarono all’unisono nella direzione del nano, con fare indagatore, ma solo tre menti si chiesero che cosa potesse aver pensato il loro amico.

“Su dicci tutto, fratello” esclamò Eldan, impaziente come gli altri di sapere cosa avesse da dire, “Non farti pregare, cosa hai in mente”.

“È semplice ragazzi miei, assoldiamo con i vostri innumerevoli averi, un folto gruppo di mercenari che soverchi in numero e aggressività i soldati che lo Smodato ha inviatoci contro. Noi stiamo lontani a guardare dall’alto di una torre, e vediamo come vanno le cose”. Un grande sorriso apparve sul volto del mastodontico guerriero, tale da farlo apparire nella sua più infantile espressione da ebete, una macchina da guerra formidabile, ma senza guida, come un carro con dei buoi al giostro ma senza il contadino che li governi, o come un ariete impazzito dalla gelosia che si scaglia con forza sul nemico in amore, colpevole di essersi innamorato della pecora sbagliata.

“Ma sei proprio una pecora, fratello, è così che affronti le difficoltà, demandando ad altri i nostri problemi, qui ci sono di mezzo le nostre case, le nostre famiglie, i nostri amici”. Disse Eldan. “E i nostri soldi”, disse Cabala risentito. “I miei denari non si toccano” e detto questo mise mano, veloce come una saetta, al coltello che portava sempre in cintura digrignando i denti come un matto e aveva quasi la bava alla bocca. Cosa che invece aveva veramente Farandis. “Sì bello, anche io volere fare guerra, anche io sulla torre, sì io fare a botte con mercenari”. “Ora calmatevi tutti”, disse il chierico, “la situazione ci sta’ sfuggendo di mano, la fretta non ha mai aiutato nessuno”, “e dire che a me la tua mi ha sempre aiutato molto”, disse ridendo Taranis. “A cosa alludi sconcia talpa”, “a tutte le volte che di nascosto, vieni da me, nel mio modesto atelier, quando scegli una grassa battona, sali le scale, e dopo soli cinque minuti ne discendi, tutto sudato e ansante” ah ah ah, “delle clessidre così corte non le hanno ancora inventate” ah ah ah. “Sconcio e profano essere oscuro come la tua pelle fetida e scura”, “ripetilo ancora e sarà la tua ultima volta”, “su vieni, fatti sotto velociraptor intabardato”. Una nuvola biancastra seguita da una roboante e assordante deflagrazione, rubò la scena ai contendenti. L’elfo con uno dei suoi trucchetti richiamò l’attenzione del gruppo. “E’ così che pensate di sconfiggere il male, di aiutare Stefano Leopoldo, comportandovi come dei fanciulli bisognosi di sonore sculacciate per imparare le buone maniere?”, “smettetela di fare baruffa tra di voi, dobbiamo essere uniti e trovare delle risposte sensate ai nostri problemi”. 

Tutto questo movimento sembrò rischiarare la mente al chierico, sul qual viso apparve un flebile sorriso che andò via via sempre più allargandosi, fino a divenire una liberatoria esclamazione. “Forse ho trovato”. “Una cosa giusta Taranis l’ha detta, dovremo guardare dall’alto di una torre”. “Ma ti droghi anche tu come faccio io, a volte?” esclamò Cabala, “oppure sei sciroccato tale e quale a Farandis”. “No amici, una volta ho letto da qualche parte di un vecchio sapiente, che vive solitario ai piedi delle montagne Hismanal, nelle sue pendici perennemente avvolte dalla nebbia, capace di fornire una risposta a chiunque gli ponga una domanda”. “Ma è gratis questo suo servizio?”, disse Cabala, precedendo sul tempo  il nano, che paradossalmente aveva la stessa domanda sulla punta della lingua.

“Questo non lo so, ma troveremo il modo di scoprirlo”, “si e dove, su Focus?”, disse Taranis, con una punta di sarcasmo nel tono della voce. “E poi questo mago Merlino come lo troviamo?, sulle pergamene gialle alla voce  sapienti solitari?”.

“Se solo ricordassi, dove l’ho letto, accidenti a me”, detto questo incrociò le braccia sul petto e portò la mano destra sul pizzo da capra montana che portava pendula sul mento, cercando la risposta nel muso inebetito di Gemon V, che si era appollaiato sopra un narghilè dal quale usciva un’aromatico fumo, che sembrava avere un’enorme potere sui sensi del volatile, attaccato con una sola zampina all’asta delle tende e le ali aperte come se cercasse di emulare un vigile urbano della città.

*   *   *

Mentre i nostri eroi, erano presi dal grande problema che assillava i loro animi, la vita nel Granducato proseguiva con regolarità, nessuno sapeva del pericolo che pendeva sulle loro teste, Stefano Leopoldo se ne era ben guardato dall’informarne i suoi sudditi, come ben si sa certe notizie sanno essere più deleterie di un drago rosso che si decide di passare le sue vacanze estive sul territorio da lui controllato.

L’Arciduca Stefano Leopoldo continuava a passeggiare avanti e indietro sul balcone prospiciente i giardini interni del palazzo, come se montasse la guardia alle sue stanze, l’espressione sul volto tradiva la sua proverbiale tranquillità, questa volta sapeva di aver chiesto molto ai suoi paladini, non che avesse perso fiducia in loro, ma non aver ricevuto ancora nessuna nuova da parte loro, lo rendeva estremamente nervoso. Avrebbe mandato volentieri il suo esercito a scacciare quel manipolo di assassini, ma sapeva che tra loro c’era qualcosa che andava oltre i normali poteri umani; testimoni di tali affermazioni erano i soldati che avevano tentato di intercettare giorni orsono codesti sicari, spariti nel nulla senza lasciare la minima traccia. I racconti degli abitanti nei punti più esterni del regno contenevano incredibili storie di poteri magici, eresie impronunziabili e di esseri non umani, presto queste dicerie avrebbero solcato le chilometriche distanze dei quattro punti cardinali che si estendevano sul Granducato, portando con se queste storie e chissà cos’altro, gonfiate dalla fantasia dei bifolchi e dalla proverbiale voglia di storpiare la verità da parte di alcuni esseri che popolano i boschi, reietti della società come gli halfling o gli elfi verdi. La paura si sarebbe impadronita della quiete, i sudditi sarebbero impazziti e avrebbero incominciato a fare pressioni su Stefano Leopoldo perché sistemasse le cose, senza che nessuno ci rimettesse una virgola.

Notizie, solo queste aspettava il sovrano, stava per maledire i suoi eroi, quando vide entrare dalle porte principali del palazzo i magnifici cinque, anche se a dire il vero la loro visione avrebbe schifato anche la più lurida bovazza di cavallo che faceva bella mostra di sé sul selciato della via che portava alle stalle. Ogni volta si chiedeva come facesse a fidarsi tanto di quegli esseri tanto male assortiti ma poi ricordava le loro gesta e gli innumerevoli quattrini che aveva loro elargito per scacciare i primordiali pensieri, ma un senso di vomito continuò a pervadere le sue viscere.

“Mie cari amici”, disse Leopoldo, accogliendo i cinque nella sala del trono, “posso fare qualcosa per voi, per venirvi incontro a risolvere questa maledetta situazione, chessò vi faccio preparare un bagno e dei vestiti puliti?”, “No sire”, rispose Fideiussione, autoproclamandosi ambasciatore dei pensieri di tutti. “Allora avete già trovato una soluzione a questa nefanda situazione?”. “Quasi mio Sire, ci stiamo lavorando per perfezionare il tutto”, disse Eldan sapendo di mentire in cuor suo. “Io un bagno lo farei molto volentieri, e mi farebbero comodo alcuni vestiti in seta blu con le maniche molto larghe per…”, “piantala Cabala, sei spregevole quando ti ci metti, l’acqua non riuscirebbe a levare il marciume che si annida nel tuo animo”, rispose Taranis. “Mio Sire, in verità qualcosa potrebbe fare per noi; la prima tappa del nostro viaggio ci porterà verso le montagne di Hismanal, delle carte topografiche molto accurate della zona ci farebbero molto comodo”, “anche dei cavalli veloci e robusti sarebbero molto graditi, soprattutto robusti viste le dimensioni di Farandis”, disse Fideiussione, “si molto alti, io sono grande e peso molto non voglio che il cavallo soffra, ne sarei dispiaciuto”, intercalò Farandis.

“E già che c’è sa, suprema regalità, per le spese iniziali qualche tintinnino ….”, “sei un gran leccaculo Cabala, però mi piaci, non vi farò mancare nulla di cui avrete bisogno. Farò si che ogni vostro desiderio sia esaudito. Ora mi ritiro nelle mie stanze, tutto questo trambusto mi ha creato un tale mal di testa…”. “Ci vedremo domani all’alba, prima della vostra partenza, buonanotte a tutti.”

*    *    *

Congedato l’Arciduca, i cinque (oops, i quattro) fecero lavorare il loro cervello, cercando di trovare il miglior modo di sfruttare la serata e le mille possibilità che il Palazzo metteva a loro disposizione.

Il chierico, con il fido pipistrello appollaiato sulla spalla destra, si diresse verso la biblioteca alla ricerca di una qualche traccia del fantomatico eremita delle nebbie,  se solo riuscisse a ricordarsi il nome ….

Farandis, sapeva già dove andare, non era il cervello a guidarlo verso la zona a lui più congeniale del palazzo, ma lo stomaco; c’era un più bel profumo di stufato alle erbe cipolline che saliva dalle cucine regali; Taranis, a volte, bisognava proprio dirlo, ragionava col cazzo, crediamo sia stato visto rincorrere ogni gonna svolazzante per i corridoi del palazzo fino all’alba.

Eldan reputò saggio fare un giro verso i giardini e gli orti di corte, sicuro di trovare piante ed erbe molto utili per il loro imminente viaggio.

Cabala, molto conosciuto a corte; ma non dalle donne, venne preso quasi in consegna da un manipolo di armigeri, che con la falsa speranza di tenerlo lontano dai forzieri del Granduca, lo portarono quasi a forza nei loro acquartieramenti, con la promessa di interessanti partite ai dadi e alle carte.

*   *   *

Stefano Leopoldo si rigirava grondante di sudore nel letto, profondi sogni lo tormentavano nel sonno, la fresca brezza notturna che entrava dalle finestre non riusciva a compensare il tramestio interiore che attanagliava il Granduca, che in cuor suo non era tranquillo anche per la presenza dei cinque personaggi suoi ospiti, non vedeva l’ora che fosse giorno per vederli partire, contento di poter dare loro tutto ciò che volevano, purché partissero.

La vecchia balia Mami, trascorreva ancora e di nascosto da tutti; anche se era il segreto di Pulcinella, le notti accanto al letto di Stefano Leopoldo, al quale detergeva la fronte con un panno bagnato, canticchiando un vecchia canzoncina che canticchiava sempre quando il sovrano era agitato nel sonno :

“Ninna nanna, sei e venti
il bambino mette i denti,
e ne mette una dozzina
fra stasera e domattina.

Ninna nanna, sette e venti, 
il bambino si addormenti,
s’addormenta e fa un bel sonno
e si sveglia domani a giorno.

Ninna nanna, otto e dua,
il bambino ha tanta bua,
ha la bua e guarirà,
la Mami l’aiuterà.”

Nel frattempo Don Fideussione Batman, si era calato nella tetra e scura atmosfera della biblioteca granducale, il buio era squarciato in una limitatissima zona, dalla lampada che il chierico impugnava nella mano sinistra, sempre accompagnato dal fido e silenzioso animaletto, che spossato dalla tediosa giornata, riposava appeso alla manica del saio del suo padrone, con un occhietto aperto e uno chiuso, per far vedere al suo padrone che era comunque sempre pronto ad ogni suo richiamo.

Districandosi tra ragnatele che parevano liane amazzoniche, passava in rassegna scaffale dopo scaffale, leggendo ogni costola rilegata in cuoio dei libri soppesando bene i titoli che avrebbero potuto fare al caso suo.

Più il tempo passava e più la fatica, lo sconforto avevano il sopravvento, quando ecco che un titolo cattura l’attenzione oramai flebile del religioso (?), Torri e castelli sui Monti Hismanal, “cazzo”, esclamò Fideiussione “ci voleva proprio un genio per trovare un libro del genere, ma ora che l’ho trovato non dovrebbe essere difficile trovare la torre giusta, quante ce ne saranno mai in quel luogo dimenticato da Dio”.

Estrasse il libro dalla sua sede, non fu un’impresa semplice, le ragnatele aveva cementato il tomo alla scaffalatura, una nube di pesante polvere secolare, si asperse nell’aria, facendo starnutire Gemon che mollando la presa con le zampine, andò a sbattere in terra con un’assordante tonfo. Fideiussione finalmente rinfrancato, ma cosciente che non era finita lì, si recò verso un leggio posto in un angolo della stanza, e prese a sfogliare le gialle pagine rese delicate dal tempo trascorso da quando furono vergate. Immerso nella lettura non si accorse che Gemon era rimasto in terra a proseguire il suo sonno, finalmente contento di poter riposare.

Eldan passeggiava tra i prati e gli orticelli, con una piccola roncola in mano, tale da farlo assomigliare ad un druido, peccato per le orecchie, unica cosa che lo differenziava dai grandi sapienti. Aveva trovato e raccolto diverse piantine, che prese singolarmente potevano sembrare innocue e inutili, ma lui sapeva come mischiarle tra loro rendendole utili a lui e ai suoi amici.

Ad un tratto, nella semioscurità della notte, intravide una flebile lucina arancione, che si accendeva ad intermittenza, quasi fosse una lucciola; l’elfo prese ad avvicinarsi con passi felpati nella direzione del lumicino. Più si avvicinava, più l’immagina lontana si faceva nitida, fino a che non riconobbe una figura femminile, assisa su una panchina in sasso, sotto un gazebo dorato, ricoperto da splendidi fiori aromatici. La fanciulla aveva lunghi capelli biondi, che le scendevano sulle spalle fino alle scapole, fermati sulla fronte da una fascia in cuoio, un abito leggero con le frappe ricopriva il suo esile corpicino, due piccole fessure rappresentavano gli occhi, socchiusi come se stessero per cedere al sonno. Due lunghe orecchie appuntite come un coniglio, fecero cadere ogni freno inibitore, scorgendo in lei la tipica figura di elfo uscì allo scoperto e si diresse verso di lei.

“Ciao”, “bella serata per una boccata d’aria all’aperto”, “io sono Eldan Gil-Eriador dei Marlock, e tu?”, “ehi frena fratello” le apostrofò lei di rimando. “io sono Magdi, e quello che faccio qui non sono affari tuoi, se vuoi rimorchiare una puledra, vai verso le stalle che ne trovi quante ne vuoi”. “Uh, che bel caratterino che abbiamo, siamo state forse morse da qualche serpente velenoso?, dimmi dove che ti succhio la ferita”. “Ma sei sempre così spiritoso con le donne o solo con me fai il diverso?”. “Ma vedi, ero in giro per raccogliere delle pianticelle, quando ti ho vista qui tutta sola, e mi è venuto spontaneo chiedermi cosa facesse una bella ragazza a quest’ora di notte sotto questo cielo stellato”. “Niente, pensavo, non riuscivo a prendere sonno, c’è un maledetto nano che corre nudo per tutti i corridoi cercando di mettere le mani sulla prima che gli capiti a tiro, fa un tale frastuono che ho voluto estraniarmi e rilassarmi”. “Ho capito di chi parli, è mio fratello, non è cattivo, ma la fedeltà coniugale lui non sa cosa sia”. “Cosa stai fumando?, ha un buon aroma, posso fare un tiro?”. “Ma certo mio caro, sono alcune piantine, molto simili alle ortiche, che faccio crescere in un orticello tutto mio, raccolgo le foglie, le faccio essiccare, le trito e le rullo. Hanno un buon mercato all’interno del castello, tu non sai quante persone ne facciano uso qui dentro”.

Inforcato il mozzicone, Eldan tirò una grande boccata di aromatica erbetta, “hm, è veramente roba buona, Cabala andrebbe giù di testa per questa, se glielo dicessi avresti un cliente in più”, detto questo sprofondò in un’atmosfera onirica, fatta di chiacchiere, risate, battutacce, boccate aromatiche e chissà cos’altro…

Farandis non ci mise troppo a trovare le cucine, ma un nemico più temibile di un Cecilia pelosa, sembrò essere la cuoca Bismarck (da qui la famosa bistecca alla Bismarck), larga quanto una corazzata, che come vide l’omone di latta, imbracciò il suo mattarello in noce temprata, che più che per le arti culinarie, sembrò essere stata progettata per le arti militari. Quando si trattava di mangiare, Farandis, si faceva furbo, adocchiò la pirofila più grande sul tavolo di cucina, un cinghiale talmente grosso che pareva un cavallo. Emanava un profumino alle bacche di ginepro, da far roteare gli occhi, ma l’unica cosa che roteava in quel momento era il mattarello di Bismarck, che tentava di colpire il guerriero con occhi iniettati di sangue. Rapido come un coniglio in amore, inforcò la pietanza e proruppe fuori dai locali, inseguito dalle stridule grida della cuoca che si sentiva derubata del piatto forte. Come un toro in carica, Farandis correva per tutto il palazzo con il cinghiale sotto braccio, cercando di sfuggire dagli sguardi indagatori delle persone che incontrava strada facendo. Era alla ricerca di un luogo tranquillo in cui dare sfogo all’appetito che faceva capolino dallo stomaco, emettendo rumorose borboglii che parevano tuoni.

Riuscì infine a trovare una scala a chiocciola che scendeva verso le fondamenta del castello, scese le scale ansante, al buio, la paura stava prendendo il sopravvento, l’uomo nero poteva fare capolino da un momento all’altro, non si rendeva conto che era solo una vecchia filastrocca che gli raccontavano da piccolo e che se avrebbe incontrato il fantomatico uomo nero, sarebbe stato lui a fuggire in preda al panico.

La prima porta che trovò si aprì cigolando sui cardini, gli occhi abituati al buio furono colpiti da una fortissima luce, suoni multiformi assordavano i timpani del colosso, che intontito rimase come una statua sulla soglia della porta.

“Mio carissimo amico”, si sentì apostrofare, “vieni a sederti qui con noi; ma che pensiero carino che è stato il tuo a volerci portare uno spuntino, il vino già l’abbiamo, su entra, che fai lì impalato come uno ciurlo che l’ha preso in culo”. Questa voce suonò familiare a Farandis, sembro quasi che a chiamarlo fosse quel furbone odioso di Cabala.

Quando finalmente riuscì ad aprire gli occhi, riconobbe effettivamente il fantomatico ladro, che sedeva attorniato da un folto gruppo di soldati, intento a giocare ai dadi con alcuni di loro, che però non parevano molto contenti. Alcuni soldati si avvicinarono a lui per prendere il cinghiale e posarlo sul tavolo, ma Farandis ebbe un brusco movimento a protezione del suo trofeo. “No, mio. Chi avvicinarsi morire come lui”. I soldati si ritrassero impauriti, “suvvia tontolone, non fare così, siediti qui con me, ti insegno un giochino che anche tu puoi capire, e una volta che hai capito ci si può arricchire, a tue spese”, “come?” “no niente non farci caso, e vieni qui”. Sempre con i cinghiale sotto braccio, Farandis si sedette accanto a Cabala, che incominciò a spiegargli, non senza difficoltà, in cosa consistesse il lancio di due semplici dadi da 20. Il vino continuò a scorrere a fiumi tra gli astanti, annebbiando le menti, i soldati scoprirono presto quanto era facile circuire il guerriero, che continuava a stringere la pietanza che aveva rubato, senza accorgersi che oramai stringeva solo la testa del suino selvatico. Il sorriso tornò sul viso di coloro che prima perdevano, avendo trovato chi perdeva anche per loro, intanto Farandis continuava a sorridere e a più riprese tentava di impugnare il mozzicone che pendeva dalle labbra di Cabala, perché diceva che emanava lo stesso profumo del cinghiale. “Piantala Farandis, lo sai che ti fa male, ci sei caduto dentro da piccolo e da allora non ti è ancora passato l’effetto, certo che ti ha proprio preso male”. L’allegra combriccola andò avanti così fino all’alba, senza accorgersi che a più riprese Cabala spariva dal simpatico quadretto, per farne poi ritorno con le tasche sempre più gonfie.

Un fantasma ululante, in un qualsiasi castello scozzese, avrebbe fatto meno paura e trambusto di Taranis. Come un gallo nel pollaio, si aggirava completamente nudo per i lunghi corridoi del castello, era alla ricerca di una qualsiasi calda femmina che potesse soddisfare le sue esigenze sessuali, che erano proverbialmente esagerate.

Molte gallinelle gli si offrivano volontariamente, ma erano quelle che neppure una faina cieca avrebbe scelto per un brodino invernale; il nano era certamente esigente, e lui di donne se ne intendeva, non a caso era possidente del bordello più rinomato di Karameikos e dintorni, da lui giungevano da ogni parte persone illustri e meno (vedi ad esempio Don Fideiussione Batman, che voleva sempre quelle più in carne e pure vestite da suore) certi di trovare ciò che cercavano (elfe, nane, umane, negroidi, orientali, ecc) nella più completa riservatezza, nel rispetto della legge sulla privacy introdotta dal Granduca da qualche anno oramai. L’unica persona che non era accettata a “Fottlandia” era Farandis, Taranis non accettava concorrenti in casa propria.

Gira che te gira, trovò una porticina aperta lungo il corridoio delle stanze delle cortigiane che si occupavano della persona del Granduca.

“Permesso”, disse Taranis affacciandosi sulla soglia della porta, vide una ragazza bionda, seduta di fronte allo specchio in camicia da notte intenta a pettinarsi i capelli. “Avanti”, rispose lei, con un filo di voce di una sensualità prorompente, “ti stavo aspettando, mio eroe”. Taranis non si fece pregare due volte, chiuse la porta dietro di sé e si portò alle spalle della giovane con un filino di bava alla bocca. “Prendimi, sono stanca di fare la verginella a mo’ di vestale, lo sanno tutti che Stefano Leopoldo preferisce la compagnia degli uomini, ti prego prendimi”, “lo famo strano?”, disse il nano sollevando di peso la fanciulla e porgendola sul letto. “Come ti pare”, non fece in tempo a finire la frase che si ritrovò nuda in balia del muscolo oratore e turgido del nano. “Oh, come parli bene con la lingua, oh….”, poi tocco a lei usare la lingua “vorrei chiavarti e non toccarti e tra i peli incerti, in c..lo a lingua sciolta risuonarti una canzone, vorrei ficcarti tra la bocca, fica ballerina vorrei coprirti a seni afosi e sputi profumati, e giù tra le tue palle e succhiarti il c… è il mio dolore, vorrei tra incul… di lussuria un pianto, leccarti le ginocchia e su, dal ventre al cuor vorrei non poter godere per riposare un po’”. Al ché il nano le chiese se voleva entrare a far parte del suo harem, dove sarebbe stata rivalutata come persona, infondo gli mancava una ragazza di Oxford.

E fu giorno e fu mattina, e mancavano ora nove giorni.