Giorni di …crisi?
“La fusione di competitività globale e di disintegrazione sociale non è una condizione favorevole alla costituzione della libertà”
(Ralf Dahrendorf, Quadrare il cerchio, Ieri e oggi, Laterza 2009)
“Perché è indispensabile investire subito risorse adeguate per favorire un circolo virtuoso tra innovazione, cultura ed educazione.”
(Angelo Scola, Il Sonno della Ragione e il Primato del Lavoro, in Lezioni per il futuro, Biblioteca Multimediale de Il Sole 24 Ore 2009)
“Il risultato è che i manager orientano la gestione a breve, trascurano l’innovazione, non considerano i lavoratori e la loro qualificazione un asset centrale delle imprese, si fanno meno problemi a licenziare e incrementano le disuguaglianze sociali.”
(Carlo Trigilia, Il Liberismo non può essere un cliché, in Lezioni per il futuro, Biblioteca Multimediale de Il Sole 24 Ore 2009)
“Siamo indotti a cercare, come Ulrich Beck ha causticamente osservato, soluzioni personali a contraddizioni sistemiche; cerchiamo la salvezza individuale da problemi comuni.”
(Zygmunt Bauman, Voglia di comunità, Laterza 2001)
Non è la prima volta che mi trovo a parlare di crisi, quest’anno…
In realtà era un po’ che sentivamo, di tanto in tanto, qualche voce che si sollevava per protestare contro meccanismi viziati e viziosi del mercato che non erano giustificati da nulla se non da una ricerca del profitto diventata fine assoluto e non più mezzo di espansione e di crescita.
Oltre ai soliti critici di oltre-muro, resi poco credibili per effetto della grande scommessa che avevano perso contro la storia, vi erano anche nuove voci inquietantemente vicine ai vincitori, ad avvisare di quello che stava succedendo: chi aveva (per meriti o fortuna) accumulato grandi fette di ricchezza, non aveva nessuna intenzione non solo di rinunciare ad esse, ma anche di rinunciare alla grande impennata degli scorsi decenni.
E quindi, in un mondo in cui la torta non cresceva a ritmi vertiginosi e le risorse sono purtroppo spesso limitate ed esauribili, la tendenza era quella di pensare ad un mondo sviluppato sempre più sviluppato, e ad un mondo non sviluppato (o, ironia della sorte, così sfigato da essere proprio “in via di sviluppo” quando il concetto stesso di “sviluppo” veniva messo in discussione) destinato ad “attendere il proprio turno”.
Conti senza l’oste? Miopia? Egoismo del singolo che tendeva a superare ogni egoismo tollerabile dai mercati?
Gli attori economici hanno così preferito ignorare quelle cose (morale, solidarietà, idea di “giusto guadagno”) in nome di un comprensibile, ma insostenibile, “finché vinco gioco”.
Comprensibile perché è vero, non si può chiedere ad un commerciante di guadagnare 5 quando può guadagnare 10, adducendo “solo” motivazioni di ordine morale… Chiacchiere da perpetue e da boy scout. Tentativi di arrestare l’inarrestabile progresso. Nostalgie platonico-maoiste.
Eppure la storia, l’economia, la sociologia, ce lo avevano già insegnato, a volte in modo decisamente molto severo: e chi l’ha detto che la storia dell’uomo sia sempre in costante ed inarrestabile progresso? E chi l’ha detto che la storia dell’Occidente sia la più interessante delle storie possibili?
Cavalchiamo i consumi, spesso preferendo dimenticare la necessità di essere consumatori consapevoli. Consapevoli dei costi indiretti e dei costi che sembrano non cadere sulle tasche di nessuno. Liquidiamo ogni discorso sulla solidarietà come se non c’entrasse nulla con l’economia e con la vita reale. Come fidarsi, quando non c’è alcun senso di comunità e di solidale appartenenza? Ci eravamo forse dimenticati che senza fiducia il mercato finisce per non esistere? Perché dovrei comprare qualcosa da te se penso che tu sia un ladro? Perché dovrei investire sul domani se il mondo finirà nel 1012 (e, scherzi a parte, se investire in prospettiva diventa un assurdo dispendio di forze, visto che l’unico investimento buono è quello che da subito dei risultati).
Così ogni le logiche industriali basate su investimenti, strategie di produzione, innovazione, soddisfazione degli utenti, lasciano il posto ad una sola unica grande priorità: soddisfazione degli azionisti (legata a cose non troppo più complesse dell’ammontare del dividendo).
In un mondo in cui sembra complicatissimo, se non a volte impossibile, far quadrare qualità del prodotto, costo del lavoro (con correlata tentazione di spostare la produzione dove i costi “sociali” sono imparagonabilmente inferiori), riduzione dei costi per aumentare i margini, programmazione a medio-lungo termine delle strategie di produzione e vendita, ecco che le banche e le assicurazioni si mettono a fare le entità intoccabili. Enti spesso sovranazionali che pensano di poter essere al di sopra di tutto e di tutti. Se il mercato fa calare i prezzi e i governi intervengono in maniera un po’ drastica (e non sempre lungimirante) sulle politiche di vendita, la reazione è “cercare di recuperare da qualche altra parte”. I costi che dovrebbero abbassarsi si alzano, misteriosamente, con motivazioni tecniche che, purtroppo, non hanno più senso in una situazione che tende a preservare solo qualcosa che tecnico non è: i dividendi degli azionisti.
Che sono umorali, come tutto il mercato. Che pretendono che quando tutto il resto si abbassa e viene svalutato, la propria posizione continui a crescere.
Che apprezzano non gli amministratori responsabili che operano su visioni di insieme e di lungo periodo, ma solo quelli che giocherellano su leve azionate spesso in modo quasi casuale, nel tentativo di far crescere il loro, maledetto gruzzolo, spesso neppure troppo sudato!
Questo non per dire che le aziende dovrebbero puntare ad una riduzione del guadagno (anche se, a dire la verità, se si vuol dare la possibilità a più soggetti di accedere ad una soglia di modesta ricchezza, questo potrebbe comportare la rinuncia ad alcuni privilegi che sembrano intoccabili). Vuole semplicemente dire che in un momento di caduta libera, attenuare le perdite è già una strategia vincente. E che qualunque meccanismo utilizzato nella frenata deve essere utilizzato nel rispetto dell’uomo.
Un meccanismo che pone il soldo davanti all’uomo è semplicemente sbagliato.
Ed è destinato ad un successo momentaneo e a costi sociali troppo alti.
E’ curioso come sul tema della dignità dell’uomo non solo tante autorità morali e religiose si esprimano in buona sintonia, ma anche tanti sociologi e tanti teorici dell’economia, senza essere minimamente ascoltati dai più.
Inserire nel discorso anche i soggetti istituzionali arricchisce e complica ulteriormente le cose.
Anche per la politica non è un bel momento. Forse è un po’ di decenni che le cose stanno così, ma negli ultimi anni il problema è senza dubbio drammatico.
I privilegi hanno ingessato tanti, troppi meccanismi di risparmio.
Chi governa preserva la poltrona, chi fa opposizione protesta. E quando la situazione cambia le parti si invertono come in una scenetta della Commedia dell’Arte. Ciascuno ha un suo ruolo nel canovaccio, chi governa e chi si lamenta, e le battute pronunciate sono spesso svuotate del loro senso.
Di cambiare davvero pochi governanti ne hanno voglia. I costi di riorganizzazione, le rinunce, la necessità di svolgere un lavoro intellettuale di reale programmazione sul medio-lungo termine …tutte cose che sembrano non aver più nessun valore.
E così, anche qui si naviga a vista. Senza perdere mai la costa. Col terrore di prendere il largo, alla ricerca di qualche soluzione realmente nuova. E se qualcuno ci prova la diffidenza, le normative, il potere dei più stupidi lo richiamano subito a terra.
Si può essere manager dicendo cose geniali tipo “Dobbiamo aumentare i margini” o “Dobbiamo ridurre i costi”, demandando ai subalterni la responsabilità di scegliere le leve su cui agire. Si può governare un paese senza avere un idea di come il quadro complessivo delle cose deve sistemarsi, o fare il Sindaco senza nessuna idea di città.
Anche i partiti, storicamente depositari di messaggi idealizzati, basati su obiettivi tendenziali di lungo respiro, preferiscono rinunciare alla loro vocazione originale per diventare contenitori disomogenei e metamorfici pronti a cavalcare l’idea di successo, l’iniziativa sciolta che porta visibilità.
E le persone, stanche dei soliti discorsi, dei problemi non risolti, che si vedono immersi dovunque (nel lavoro, nel loro paese, spesso anche nella loro famiglia) in un clima caratterizzato da assenza totale della progettualità, mollano semplicemente il colpo. Per codardia, a volte. Per pigrizia, spesso. Ma credo anche per stanchezza, per senso di solitudine.
Chi comanda, chi governa, chi ha il potere di cambiare le cose (e questo spesso ce lo abbiamo in tanti, durante le nostre giornate), ha il dovere di lavorare per farlo.
Di lavorare a livello della famiglia, per premiare chi è in grado di impegnarsi in un progetto di crescita. Di lavorare a livello della coesione sociale, perché una città in cui i cittadini hanno smesso di parlarsi non può funzionare. Di lavorare a livello delle imprese, perché se si smette di investire sul futuro, qualunque tipo di ottimismo diventa inconsistente, finto. E le chiavi di tante questioni sono davanti ai nostri occhi, lì dove sono sempre state. E si chiamano istruzione, cultura, senso di appartenenza, etica. Nulla di nuovo. Dai tempi di Socrate in poi …e forse anche i nostri progenitori che cacciavano e raccoglievano quello trovavano lo sapevano già!
Possibile che siamo così miopi?
andrea.prof
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