Angiolino Micheletti (27 novembre 1933 – 20 ottobre 2016). Mio padre.
(Originariamente pubblicato il 22/10/2016)
Sofferenza. Sua e nostra. Diversa, probabilmente (mai come ora sono stato fermamente convinto che la sofferenza è sempre personale e non cedibile). Ma racchiusa in un unico cerchio d’amore: coniugale, filiale, fraterno, e certamente paterno.
L’immagine del mio papà che si toglie la maschera dell’ossigeno facendo cenno alla mamma di avvicinarsi per darle un bacino sulla guancia mi resterà sempre nel cuore. Come pure quella della sua mano che stringe la mia e quella di Davide, forte come a cercare di esprimere qualcosa che la bocca secca non riusciva più ad articolare.
Mentre vorrei avere già dimenticato l’immagine dei suoi occhi carichi di pianto, gli sguardi pieni di terrore per la fine che sentiva vicino, e anche i dettagli di quell’ultima terribile notte. Quando mi sentivo carceriere più che amorevole assistente. Quando, dopo tante ore di pannoloni lacerati, mascherine strappate dalla bocca, attacchi agli aghi delle flebo, dolorosi tentativi di evadere dalle sponde del letto, sentivo la rabbia mista al dolore crescere dentro. Perché non è giusto doversi salutare così.
Avevi paura di essere troppo vecchio, quando siamo nati. Di non poterci veder crescere.
Invece siamo qui, 40 anni io e 36 Davide, che ti salutiamo con il cuore che piange, ma con l’incrollabile consolazione che hai fatto un buon lavoro, nella tua vita e per la tua famiglia.
Ci tenevi a darci quello che tu non avevi mai avuto. E quando eravamo piccoli hai fatto di tutto per tenerci al riparo da quel mondo che stava già cambiando in peggio. E non hai mai avuto bisogno di nessuna lettura filosofica o politica per saperlo.
Poi siamo cresciuti, e ci hai dato il modo di scoprire ed affrontarlo, quel mondo la cui discesa verso la dissoluzione di tante cose importanti pareva sempre più inarrestabile. Forse non condividendo sempre le scelte che facevamo, ma dandoci sempre tutto il supporto possibile per garantirci di poterle fare, e la certezza che avremmo sempre avuto una casa a cui tornare, da vincitori o da vinti.
Tu e mamma avete sempre accolto, con affetto e discrezione, i nostri amici, i nostri piccoli e grandi amori, e avete sempre saputo dare un letto caldo ai nostri sogni.
Oggi faccio fatica a non piangere. Tra qualche ora vedrò i lineamenti del tuo viso per l’ultima volta. Per sempre …quanto male mi fa questa cosa!
Però confido che, col passare dei giorni, il ricordo del sorriso di quanto stavi bene ed eravamo tutti a tavola insieme riprenda il suo posto, coprendo almeno parzialmente l’immagine del tuo viso sofferente, e anche che le tue risate guardando Bud Spencer e Terence Hill che le suonavano ai cattivoni risuonino nei miei pensieri cacciando l’odioso e cupo rantolo del tuo respiro affannato che usciva attutito e disumanizzato dalla maschera verde che ti abbiamo tolto solo dopo la fine.
Non avevo mai esattamente capito cosa si intende, quando si dice che si nasce e si muore soli. Ora mi è evidente. Ora, purtroppo, credo di saperne davvero molto di più.
Ma spero che l’affetto e il costante tentativo di vegliare sulla tua agitazione per impedire che ti facessi male ti abbiano almeno in parte aiutato a non sentirti abbandonato, quando ci hai salutato. Se è vero che è da soli che si varca la soglia tra la vita e la morte, spero almeno che il calore delle nostre mani ti abbia accompagnato fino all’ultimo passo.
E sono certo che da dove sei puoi ancora sentire il vibrare dei cuori, nostri e di tutte le persone che ti hanno voluto bene.
Arriverà il tempo per arrabbiarsi con l’Ospedale, per il modo in cui ti hanno trattato alla fine di tutto, per averti (ed averci) dimenticato per ore in una stanza come un pacco non ritirato.
Arriverà anche il momento per ringraziare tutte le persone, che hanno saputo starci vicino, ciascuno col il suo tono e ciascuno a suo modo (perché anche l’affetto, come la sofferenza, è intrinsecamente personale).
Ma oggi vorrei solo salutarti e cercare di farti arrivare il mio amore di figlio imperfetto. Senza piangere troppo, se possibile
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