Non tutti sapete che qualche anno fa Andrea ha raccolto una parte dei suoi racconti in un unico libretto da titolo I sogni di Peter (ogni riferimento ad editoriali realmente usciti su Vola la Notizia è puramente ricercato).
INDICE
Un giorno un uomo fece un grande vaso con argilla rubata alle Fonti della Memoria e lo mise a cuocere nel Forno della Conoscenza. L'uomo entrò nel vaso e si lasciò trasportare in giro per il Tempo e per lo Spazio: ogni giorno scendeva dal vaso, vedeva nuovi mondi, e quando calava la sera vi tornava all'interno e ripartiva.
Ma un giorno uscì e trovò il Nulla. Tutto era sparito.
La sua ultima domanda fu: "Questo è l'inizio o la fine?"
Sasso Marconi, 17/11/95
Ho fatto un omino di cioccolata. Gli ho preparato un bel mondo di cioccolata e una degna consorte, anch'ella della stessa materia. Li ho lasciati alla loro vita: ho lasciato che fossero felici e non ho permesso che nulla (né calore eccessivo né bambini golosi) rovinasse il loro dolce sogno di pasticceria.
Poi mi sono addormentato e ti ho sognata.
Subito mi è venuto in mente Colui che regge nelle sue mani il destino delle umane genti: ho avuto voglia di distruggere tutto quello che avevo fatto. Invidia frustrata mista a odio! Dov'è la felicità? Come potevo non essere infastidito dal fatto che l'omino di cioccolata, la mia creatura, fosse felice, proprio sotto i miei occhi sofferenti.
...ma per essere divinità creatrici bisogna imparare ad amare il proprio creato, altrimenti si è dei semplici artefici, anche se si è Dio.
Così ho lasciato che lui fosse felice, proprio sotto i miei occhi sofferenti.
Ridammi il mio sole!
Sasso Marconi, 10/01/96
Luci moribonde scorrono veloci sotto di me.
Il mio Humming-bird sfreccia silenzioso sul barbiturico sonno di un popolo di droidi in cui anche i sogni vengono preconfezionati da tentacolari ditte multimediali.
A volte il mio sguardo si illude di scorgere nell'oscurità i riflessi cristallini della sacra cupola che preserva dal male gli ultimi esemplari di piante naturali.
Siamo strani, noi esseri umani: abbiamo imparato a sintetizzare ogni nutrimento, ci siamo adattati a respirare a pieni polmoni atmosfere solfidriche un tempo letali, ma siamo disposti a spendere un terzo del bilancio annuo mondiale per mantenere in vita gli ultimi testimoni di un mondo lontano, che si rifiutano di adeguare la vita alla morte.
La nostra vita è un continuo recitare, immedesimandoci a fatica in esseri viventi. Dopo aver assunto micropillole nutritive che sazino i nostri corpi, fornendo il combustibile e le materie prime per ogni processo cyborgcellulare, sentiamo la necessità di "giocare alla cena" con succulenti banchetti olografici, così da saziare illusoriamente le nostre più profonde esigenze di vita ...cosa ci ha resi così?
Nessuno può entrare nella cupola. Chi vuole visitare l'ultima porzione di Eden che, col suo limpido verde, rimane l'unica cosa splendente del nostro piccolo globo moribondo, visibile dalle mistiche basi lunari, dove pochi sapienti si sono ritirati per meditare su emozioni remote che a noi non è più dato di provare, deve solo collegarsi alla rete turistica e vagare per scenari elettronici inviati da sonde presenti all'interno della cupola.
Questa sera entrerò nella cupola. Sfiderò i controlli, irrompendo silenzioso all'interno del verde col più veloce aviomezzo mai progettato. E' nato solo per questo motivo: perché possa respirare profondamente, almeno per una volta, l'elemento da cui si dice si venuta la vita.
La Vita entrerà prepotentemente nei miei polmoni irreparabilmente avvelenati, mi farà inebriare, mi permetterà per una piccola frazione di secondo di recuperare ciò che la mia stirpe ha irrimediabilmente perduto.
Poi l'ossigeno entrerà in circolo e si infiammerà a contatto con le strane sostanze che ci permettono di non spegnerci, intossicandomi nella mia serenità.
Sasso Marconi, 14/02/96
Le dita del maestro si rincorrevano velocemente sui tasti bianconeri. Lunghi scatti, salti, soste trillanti su armonie contigue. Era la stessa forza che aveva generato la Quinta e l'Imperatore a guidare le sue dita incartapecorite che sembravano dimenticarsi delle artriti solo in quei brevi momenti. Finalmente, davanti a quel crocifisso ligneo che dominava la cappella di palazzo (non credeva alla potenza divina di quel tronco piagato e sanguinante, ma in quel luogo c'era qualche forza capace di conquistarlo), aveva capito che la sua Musa non esisteva fuori di lui: anche la stessa Dama che aveva tanto amato non era che una materializzazione della potenza creativa che lo dominava da quando aveva emesso il primo suono consapevole.
E così, anche quando tutto era finito, ignaro della sventurata sorte della sua smarrita lettera d'amore, si era seduto sul logoro sgabello di quercia e aveva appoggiato le dita sul piano.
Lasciò che ciò che non aveva mai avuto il coraggio di dire con le parole, relegato in un frainteso isolamento dalla terribile malattia che lo affliggeva, uscisse dai rigidi polpastrelli, mesmerico flusso incontrollabile.
La sinfonia mentale lo inebriò. Rimase per ore ad ascoltare ciò che usciva da quella danza sfrenata. Scolpiva nel suo spirito gli svolazzi di quelle crome che sgorgavano spontaneamente da quella stessa fonte da cui attingeva per respirare e per fare battere il cuore.
Venne rapito in un'altra dimensione.
Era un feto che vagava meravigliato nell'azzurro di un cielo primaverile appeso ad un cordone ombelicale di cui non vedeva l'inizio.
Era un unicorno, uno di quei bellissimi cavalli magici che vedeva da bambino in pesanti volumi di cuoio che la sua famiglia non si poteva permettere.
Era un angelo, come quei paffuti bimbi con le ali che il pastore del villaggio raccontava gli fossero sempre vicini, sorridenti quando faceva il bravo, accigliati quando peccava. E adesso poteva vederli. Non era vero! Non erano corrucciati per il male che aveva commesso, anche se non era poco: erano lì di fianco a lui sorridenti, quasi a ricordargli l'infinito perdono di Dio, e gli sostenevano le mani e i piedi in quel lungo volo sulla Selva Nera.
Rivisse in quel momento la gioia di un lungo applauso che non aveva potuto sentire, ma che era entrato in lui dai piccoli pori della pelle da cui entravano il calore e il freddo e che gli aveva regalato il più bel premio che potesse coronare la sua carriera, scapestrata e solenne.
Non si accorse dell'esplosione, e, mentre le sue dita si scioglievano per l'ultima volta sull'Inno, ciò che era sogno divenne esistenza reale.
Non si accorse mai del passaggio.
Sasso Marconi, 29/05/96
Il piede preme sempre più insistentemente sull'acceleratore. La macchina risponde con un aumento nervoso della velocità di crociera e sul display dell'acceleratore i numeri crescono rapidamente fino a raggiungere i 220 Km/h.
Luci di fari alogeni, iridescenti, scorrono a bagliori alterni ai lati dell'auto.
Non è un inseguimento, solo un ordinario spostamento per raggiungere il comando centrale.
Non so per quale motivo il mio piede destro affondi con tanta convinzione sul gas. Sono di ritorno da una Crime Scene, ma questo fa ormai da anni parte del mio mestiere: non dovrebbe più sconvolgermi, neppure soltanto innervosirmi.
Qualcosa di diverso dal solito, però, è successo.
Le hanno strappato gli occhi.
L'hanno violentata, seviziata, mutilata. Ma hanno lasciato il suo candido volto perfettamente intatto, tranne gli occhi. La pelle è liscia, le labbra sono coperte da un sottile velo di rossetto e non c'è neanche una goccia di sangue.
Hanno fatto un lavoro chirurgico.
Vi sono serial killer che sfogano la loro repressione conservando come trofeo proprio quegli organi che hanno consentito alla vittima di vedere l'artefice delle sue atroci sofferenze, ma non avevo mai visto nessuno che si prendesse anche la briga di cauterizzare e disinfettare la ferita.
Quel bellissimo viso: tutto perfetto a parte quelle due inquietanti cavità scure.
La cosa peggiore era che non si poteva pensare ad un volto così senza gli occhi. Non era la faccia grinzosa di Edipo quella che mi si era fissata davanti agli occhi, ma il grazioso visino di una ragazza di sedici anni alla quale qualcuno si era arrogato la facoltà di togliere il diritto ad amare.
Era un crudele scherzo a dispetto della natura. Un po' come quando si vedono ananas azzurre o fragole verdi disegnate sulle copertine colorate dei notes.
Così non si poteva fare a meno di immaginarsi come fossero gli occhi che Dio aveva posto a colmare quei vuoti. E fu proprio in quel momento che il dolore mi assalì in modo insopportabile.
Sasso Marconi, 5/06/96
Ho spento la televisione.
La stanza è ora quasi completamente buia, se si esclude il tenue riflesso verdognolo della radiosveglia a cristalli liquidi.
Dopo essermi tolto gli occhiali, diligentemente appoggiati sulla pila sempre più enorme dei "livres de chevet", mi lascio fiaccamente andare sul materasso e mi rimbocco fino al collo le calde e rassicuranti coperte. Devo rigirarmi un po' per trovare la posizione ottimale in cui il mio corpo rimarrà cadavericamente immobile fino a domani mattina, nel suo stato di morte apparente.
I miei occhi vagano per la stanza, alla ricerca di un baricentro spirituale su cui posarsi stabilmente prima di chiudersi, quando, improvvisamente mi accorgo di una luminescenza che non ho mai notato e che proviene dallo schermo televisivo. Sono senza occhiali, ma non mi ci vuole molto a riconoscere nelle sbavate variazioni tonali, fumosamente raccolte sul nero dello schermo, il volto della modella del Brail, l'ultima immagine apparsa prima che io spegnessi la televisione.
Mi viene da fissare gli occhi su quella confusa tavolozza antropomorfa di colori.
"Presto se ne andrà." Ma l'immagine tarda a sparire, e non sembra che la qualità dell'intensità, per altro già molto compromessa, diminuisca ancora, verso il suo destino.
La mia mente vaga tra i colori, si fissa su ogni millimetro quadrato di schermo.
Sono circondato da un fumo colorato che mi avvolge senza toccarmi, un'immateriale fascio di luci psichedeliche perfettamente immobili.
Torno nel mio corpo, ancora distratto dalle luci.
Poi: la soluzione. L'immagine, se così si può definire quello strano composto, non si è fissata indelebilmente sullo schermo, ma nella mia testa.
Chiudo gli occhi, li riapro: la maschera di cera sciolta mi fissa ancora attraverso gli occhi mal definiti, affogati nel rimmel che cola e nelle sbavature di fard.
Che ingenuo!
Ora penso di chiudere gli occhi. Mi costruisco un infantile immagine del vuoto. Li riapro.
Solo lo schermo buio del televisore.
Così ho anche risolto il mio problema per addormentarmi.
Chiudo gli occhi. Mi costruisco un'immagine del tuo volto, arricchita del tuo profumo e della calda sensazione del contatto del tuo morbido maglione nero. La fisso indelebilmente. Mi abbandono tra le braccia di Ypnos, felice di esserti vicino.
A domani.
Sasso Marconi, 13/11/96
Il sottile ed impercettibile raggio del mirino ad infrarossi lo seguiva ormai da un numero imprecisato di giorni, ma lui ignorava tutto ciò che stava accadendo, tutto ciò che stava a poco a poco incrinando l'improvvisata armonia della sua felice e stordita esistenza.
Si radeva davanti allo specchio del vecchio bagno che sapeva di pulito.
Camminava per la strada, accompagnando rispettosamente al cinema la sua dolce metà. Ma si avventava con tutta la violenza di cui la sua minuscola mente era capace sulle tette della prima prostituta che gli capitava di incontrare, e con la quale gli era dato di soddisfare quei suoi "sporchi" desideri che non aveva mai confidato a nessuno.
Qualcuno stava stringendo dolcemente le sue forbici attorno intorno al sottilissimo crine che teneva la pesantissima daga sospesa sul capo di quella gretta creatura.
Non aveva mai fatto del male a nessuno, ma qualcuno stava premendo il grilletto.
Qualcuno gli stava facendo il regalo più bello del mondo.
Sala di studio, 21/02/97
Non capisco perché queste fottutissime nuvole continuino ostinatamente a coprire il mio sole.
Una volta mi avevano insegnato che le nuvole non hanno una volontà, che ci sono circostanze naturali, scientificamente esplicabili, che portano periodicamente alla formazione di agglomerati di vapor acqueo che possono talvolta trovarsi ad interporsi tra noi e il sole. Tutto senza una volontà di nuocere a qualcuno.
Poi sono cresciuto e mi sono addentrato nei misteri del mondo. La mia mente è stata educata a penetrare il velo della verità e a confondersi col magma pulsante della vita.
Sono divenuto sacerdote del culto universalissimo dell'essenza delle cose.
Prima ho creduto che un unico Spirito del Mondo governasse il mutare delle forme.
Improvvisamente tutto è divenuto chiaro agli occhi della mia mente: ogni singolo atomo ha un'anima, una propria facoltà di decidere contro chi dirigersi.
E quando la nostra malvagità si sfoga contro un grande numero di enti, allora la loro potenza si somma devastantemente contro un unico soggetto: non è sfortuna, ma la giusta punizione per aver sfidato troppa esistenza.
Quando ero giovane i miei amici mi adoravano, quando insegnavo i miei alunni ed i miei colleghi avevano un grande rispetto per ogni parola che uscisse dalle mie labbra. Ma da quando ho capito il significato profondo del Tutto, solo risate di scherno ed emarginazione mi sono state compagne.
Ora la mia saggezza è costretta nei vincoli di una struttura demandata all'assistenza dei vecchi squilibrati. Sono circondato dal continuo sbavare degli epilettici e dal tanfo di urina degli incontinenti.
Questa è da sempre la sorte del Sommo Sapere: tanti mi hanno preceduto in queste catene.
Sia maledetto il genere umano, per la sua stolta ignoranza, per l'insistenza con la quale si tiene lontano dalla deità che gli apparterrebbe.
Sasso Marconi, 18/08/97
La radio effonde eteree melodie new age nella cavernosa stanza, arredata del solo odore di pittura murale fresca e del vecchio materasso sventrato che mi ospita mentre redigo scrupolosamente le memorie di questi attimi.
La porta-finestra è aperta, per favorire l'essiccazione del bianco, ma stranamente dall'esterno non proviene nessun rumore, come se qualcuno avesse teso un sottilissimo velo di pellicola insonorizzante.
E' agosto: da fuori non proviene nessun rumore solo perché fuori non c'è niente e nessuno che possa produrlo.
L'avvicinarsi di Ferragosto ha cominciato da qualche giorno a fare sentire i suoi effetti. Una malattia inspiegabile, ma a volte mortale, ha contagiato tutti gli abitanti della nostra neometropoli in miniatura, dove non manca nulla tranne i posti in cui andare a divertirsi: improvvisamente tutti quanti sono stati presi dall'assurdo desiderio di sfidare il caldo torrido di questi lunghi pomeriggi estivi lasciandosi soffocare dall'odore di asfalto in liquefazione delle autostrade congestionate o da quello misto di sudore e orina delle affollatissime spiagge della riviera.
Io quest'anno mi sono chiamato fuori. "Gioco falso!" Sono stanco di tentare una lotta impari e destinata a condurmi alla consueta sconfitta.
Ed eccomi qui, padrone assoluto del mio piccolo maniero, appena reduce dal lavoro che più odio. L'accecante bagliore riflesso da quelle superfici insolitamente candide dilata infinitamente nello spazio le dimensioni della mia spoglia camera da letto.
Vado a spegnere la radio, che ho lasciato in ingresso per paura di sporcarla. Poi mi tuffo nuovamente in quell'immenso oceano di luce.
Steso sul vecchio materasso tutto mi sembra diverso.
La porta è alle mie spalle, il parquet del pavimento dieci centimetri sotto di me. Nel mio campo visivo non c'è assolutamente nulla che intacchi la percezione della bianchezza.
Dal totale silenzio il mio senso uditivo stacca gradualmente il frinire delle cicale, nascoste all'ombra di alberi non molto lontani dalle mie finestre e, remoto, quasi proveniente da un'altra dimensione, il brusio delle macchine in movimento sull'autostrada.
Un assordante rumore squarcia senza alcuna pietà quel monotono silenzio urbano: l'orologio del campanile scandisce diligentemente tre tocchi, inconsapevole di quanti pochi sassesi quest'oggi apprezzeranno i suoi meccanici servigi. Non avevo mai notato quanto fosse forte quel suono che, di norma, giungeva alle mie orecchie filtrato da un imprecisato numero di ronzii e rimbombi di varia natura.
Sdraiato in quella piscina di onde luminose, con gli occhi rivolti ad un soffitto del quale posso solo percepire la presenza per effetto dell'abitudine, i pensieri scorrono più leggeri, sciabordando tra i miei lobi temporali.
L'arte sarà anche divenuta perfettamente riproducibile per mezzo di tecnologie avanzatissime, ma c'è ancora una cosa che, fortunatamente, noi uomini non siamo ancora in grado di ricreare in provetta: l'assoluta e irripetibile unicità dell'attimo. Un attimo è costituito dalla mistura alchemica di un numero praticamente inquantificabile di sensazioni, ed è forse questa la chiave della sua unicità.
Anche adesso, quando l'interazione col mondo esterno, limitata al contatto lievemente avvolgente col materasso e all'ascolto distratto di lievi rumori di fondo, mi sembra ridotta al massimo delle possibilità, mi accorgo dell'infinita serie di operazioni fisiologiche e psicologiche che si compiono all'interno del mio organismo.
Non mi era mai capitato di essere posto con una così sconcertate evidenza davanti alla complessità delle percezioni.
Psichedeliche propaggini affusolate, tenue ricordo delle mie mani, si allungano nel mio campo visivo alla ricerca di un appiglio. La rete azzurrata si deforma all'apparente contatto con la rappresentazione plastica del mio corpo, dando l'impressione di una lunga rete da pesca discretamente avvolta attorno alla mia persona.
Gioco di rappresentazioni: ormai la realtà non ha più alcun senso per me.
L'unica realtà è quella costituita dalla rete.
Ci sono catastrofi naturali - cicloni, terremoti, valanghe, così noi le chiamiamo - che cambiano la vita della massa, e che certe volte la rendono anche in grado di trovare insperate forze che consentono la rinascita. Che portano ad un nuovo splendore.
Ma vi sono anche circostanze della vita individuale che sembrano devastarti, uccidendo quasi tutto quello in cui credi, ma che sono invece capaci di risvegliare la tua forza addormentata. Non sappiamo come chiamare questi singolari eventi: catastrofi o catarsi?
E' giusto inoltre sottolineare l'elemento di mutamento, di transizione? o non è forse che quello che viene dopo ha le sue radici nell'essenza intima e profonda di quello che c'era prima e che non potrebbe esistere altrimenti?
Ora la mia memoria è dispersa nella rete.
Solo ora sono sicuro che non tutti i ricordi sono digitalizzabili.
Di alcune emozioni mi sono rimaste solo infinite serie numeriche, che vivono in veste di sensazioni uditive, tattili e olfattive, a cui manca però la vita. Solo un filo riunisce la vita all'elettricità: il sottilissimo cavo d'argento che mantiene costante il contatto con gli ultimi neuroni vivi del mio corpo.
Sono terrorizzato.
I medici me l'hanno detto tante volte: è probabile che prima della morte del mio ultimo neurone la scienza abbia trovato il modo di consentire un trasferimento su disco del mio Io più profondo; di ciò che sono contento di essere, ma anche di ciò che ho sempre cercato di cambiare e che mi resta appiccicato addosso come la più pesante delle eredità. Ma io non ci credo.
Rimarrà solo un simulacro digitale: un corpo virtuale, in grado di diventare verde o fucsia a seconda dei rapporti tra sistema operativo e programma di navigazione, che conserverà solo rapporti stimolo – risposta, codificati in una vita - una vera vita- passata.
Nient'altro.
I ricordi veri saranno solo una sequenza di 0 e di 1 che terranno insieme un'immagine statica. L'emozione del primo bacio, misto di attese e realtà, diverrà l'immagine di due bambini nascosti in un garage. In ciò che conserverà la raffigurazione della nascita di mio figlio non ci sarà null'altro che un bambino con grumi di sangue che imbrattano i suoi morbidi lineamenti, senza ricordarsi le paure e le speranze di cui quell'evento aveva rappresentato la chiave.
Sono sempre più sicuro: quando morirà il mio ultimo neurone - l'ultimo tra quelli che appartenevano al mio corpo di carne - non ci sarà nessuna possibilità, né di clonazione, né di rigenerazione: sarò morto e dovrò rendere la mia anima a Dio.
Sasso Marconi, 21/08/98
Non tutte le notti sono bue e tempestose.
Può capitare, a volte, di accostare la propria auto ai bordi di una strada di collina e di accorgersi che tutto è straordinariamente chiaro. Anche se non si ha a bordo una bionda da favola che ci ha già dato numerosi segni della sua "disponibilità".
E allora cosa accade?
Beh. Quando c'è una procace compagna al nostro fianco non è certo difficile fare centrate previsioni.
Ma la domanda risulta straordinariamente più interessante quando si è soli.
Non ho mai capito quale sia l'elemento decisivo per cui un luogo viene preferito ad un altro.
E' una specie di folgorazione.
L'asfalto che serpeggia tra colline e vecchie case coloniche, più nero della notte, scorre rapido sotto la sagoma blu della mia macchina nuova. La vernice metallizzata del mio guscio risplende del colore di una luna molto luminosa coperta da un sottilissimo velo di nuvole chiare.
Alberi che si alternano a vecchi muri a vista entrano ed escono senza sosta dal mio campo visivo, sullo sfondo di un unica e continua distesa di foglie appena smosse.
Immerso in un quadro di Van Gogh - non mancano neppure i corvi, e anche i colori sono estremamente fedeli - vago alla ricerca di una strada sempre diversa per tornare a casa; non importa quanto lunga.
Imposto una curva dal raggio amplissimo. Come all'apertura del sipario di un singolare palcoscenico, ecco che una piccola piazzola sterrata - forse l'imboccatura di una strada tra i campi - assume una posizione centrale nel palcoscenico della mia attenzione. Non c'è molto da fare.
A quest'ora non bisogna neppure perdere troppo tempo a guardare nel retrovisore se si è d'intralcio a qualcuno.
Freno, non troppo dolcemente, e mi porto al bordo della strada.
Questo è il momento più strano.
Qualcosa spinge affinché tu scenda dalla macchina e faccia ciò per cui ti sei fermato. La parte razionale del tuo cervello, invece, si chiede che cosa ci faccia un ragazzo solo ai bordi di una cavedagna alle due e mezza del mattino.
Ma mentre le domande si affollano nella testa, il processo di scelta è già avvenuto. Sei già sceso dalla macchina e ti stai avviando verso l'interno dello spiazzo.
"Almeno approfittane per pisciare!" rimprovera il cervello, offeso per essere stato così spudoratamente baypassato. "Giusto per sembrare una persona normale...".
E magari slacci anche la cerniera dei pantaloni. Magari fai anche due gocce - che tanto, se non facevi delle cazzate, eri già a casa tua, a letto, e avevi già da ore salutato le piastrelle rosse del tuo vecchio bagno!
Ma il motivo per cui ti trovi qui, il motivo che ti induce ad imboccare il sentierino ghiaioso di cui prima avevi solo intuito l'esistenza, non puoi negarlo, è un altro.
Non c'è nessuno qui che tu possa prendere in giro a mente serena.
Sasso Marconi, 26/08/98
Avevo sempre desiderato avere due frigo. E' inutile negarlo: sono un figlio dell'era elettronica, e tutta la mia vita quotidiana era basata su di una costellazione di tecno-aiuti, che ritenevo perfettamente ovvi.
Col frigo, poi, intrattenevo un rapporto particolare. Entrare in casa, dopo una lunga giornata di lavoro, coincideva col gesto meccanico di estrarre una birra gelata dal frigo. Non importava la temperatura, non mi importava niente dell'azione di polizia che si svolgeva nella gioielleria del piano terra, del maxi tamponamento autostradale che aveva attirato più di 10.000 spettatori assetati di morte, o della guerra che il nostro governo stava per dichiarare agli ultimi satelliti che si opponevano alla cessione delle loro risorse petrolifere ...l'unica cosa che volevo, appena uscito dall'antiquato ascensore che mi accompagnava sempre fedelmente fino al 75° piano del mio vecchio grattacielo giapponese, era una birra fredda. Non la birra liofilizzata termoreagente dei nostri bar, ma la costosissima birra prodotta secondo gli antichi riti dei Padri Alcoolici . Era un po' come essere negli olomovie con Bruce Willis o addirittura con Jack Nicholson, quelli che avevano divertito i nostri nonni prima di noi.
Entravo in casa, appoggiavo le mie scartoffie, e correvo in cucina. Me ne stavo davanti al frigo a domandavo: "Il solito, Johnny!". Dal costosissimo tubo No-gravity scendeva così un vecchio bicchiere di vetro, acquistato dopo una lunga contrattazione da un rigattiere danese, pieno di scurissima Guinness. Portarlo alle labbra era come rinascere.
Potevo anche ruttare, se volevo - e allora era l'apoteosi!
(...tanto nessuno abitava più con me)
E' per questo che volevo due frigo. Non mi piaceva dover attendere, per sorseggiare la mia birra.
"Un giorno" pensavo "avrò i soldi per potermi permettere un frigo-barman da salotto, che mi servirà non appena metterò piede in casa! Wow!"
Era già tutto previsto. Sarei vissuto in una villetta a pianta centrale, magari nel quartiere Palladiano. Tutto sarebbe stato tondo e coperto da lunghi affreschi psichedelici in 3D, a resa totale. Le mie produzioni vendevano bene, e questo mi permetteva di portare avanti il mio lavoro di TechnoPub presso una catena di giocattoli gestita da miei amici, dai quali mi limitavo a ricevere un anomalo stipendio in software, che a loro non costava un gran che: VR SpaceSim, Olomovie, FightSim e, per i giorni in cui la solitudine gravava pesantemente, coiti in SexMechanoSim.
Non guardavo molta tele. Vivevo degli abbonamenti gratuiti che i nuovi Multimedia Service distribuivano come promozione, ma ormai chi era rimasto senza allacciamenti MM? E così le promozioni si facevano sempre più rade, e l'unico canale che lasciavo sempre acceso, tanto per compagnia, era Junior Discovery Channel, il canale educativo gestito dal Garante alla Mente.
Avevo un buon gruzzolo, tutti gli ultimi ritrovati del divertimento industriale e la mia birra. Mi sentivo un dio e stavo lavorando all'Olobook che mi avrebbe consacrato tra i 10 migliori e mi avrebbe permesso di realizzare i miei sogni.
E allora perché ora sto scrivendo su di un vecchio disco a 3" e 1/2 degli anni 90 del secolo scorso, all'interno della discarica elettronica in cui lavoro e vivo?
Nel giro di un mese ho perso casa, lavoro e soldi e sono stato buttato in una discarica per Elettro Sistemi, domestici e non, in avaria o passati di moda.
Non c'è più posto per un single, nel 2076.
Sasso Marconi, 25/09/98
Ciao Sylvia ,
Sono ormai passati 5 anni dal giorno in cui risalendo faticosamente quei gradini persi nelle nuvole, sono uscito per la prima volta dagli Studios.
Sono rimasto solo, e questa volta non posso neppure lontanamente sperare in un tuo inaspettato ritorno sulle scene: non si torna nel vostro mondo dopo essere stati investiti da un ubriaco.
Consapevole a posteriori di aver vissuto una vita da protagonista, sempre sotto l'occhio instancabile delle telecamere, ho mosso quell'ultimo passo verso l'Esterno con la teatralità dell'eroe che pronuncia l'ultima battuta del dramma, prima di accomiatarsi dalla platea.
Ma cosa sarebbe avvenuto, se ci avessi davvero pensato?
La platea è ora anche il mio mondo.
Uno dei tanti, non più protagonista.
I sorrisi ammirati di chi mi aveva seguito per più di 10.000 giorni della mia vita - coloro a cui Io avevo saputo regalare le loro probabilmente uniche emozioni - si sono rapidamente tramutati in indifferenza: nuovi "amici" su altri network accompagnano ora le loro vuote esistenze, cancellando ogni ricordo.
Christoff, l'unico padre che abbai mai avuto, si è ritirato su un'isola in mezzo all'oceano senza lasciare tracce, probabilmente per aspettare la morte in compagnia dei suoi dubbi.
Gli Studios regalano nuovi sogni a sempre nuovi prigionieri e la legge si cura che nessuno possa più fare ad altri quello che hanno fatto a me.
I veri reclusi - quelli che stanno fuori - hanno l'impressione di girare liberi per le strade.
Ciascun uomo ha qualche occasione nella vita per scalare il suo cielo, per uscire dalla prigionia che altri uomini hanno costruito per lui, ma è doloroso assumersi tutte le responsabilità del proprio futuro, senza avere più nessuno a cui poter dare la colpa.
Ma perché le cose vanno così? Forse aveva ragione Christoff, padre buono e geloso dell'illusorio universo perfetto che aveva creato - ma forse non ci credeva neppure lui quando lo diceva - ...basterebbe volerlo davvero! Basta fare lo sforzo di uscire, per farcela!
In ogni caso, grazie del tuo amore, unica fonte di energia di fronte alle sofferenze della libertà.
Tuo Truman Burbank
Sasso Marconi, 14/12/98
Un altro anno, un altro Show da cominciare senza troppe sbavature.
Sono le 17:42 (o così almeno dice la mia vecchia sveglia a cristalli verdi) del primo giorno dell’anno 1999. E qual è il primo pensiero dell’anno?
"E tu chi cazzo sei?"
Il gomitolo di carne alla mia sinistra sta lentamente riprendendo i sensi. Si volta verso di me, mi guarda con gli occhi a mezz’asta, sbadiglia e si lascia ricadere nel vortice di lenzuoli-cuscini-coperte che ha fatto da scena allo spettacolo notturno.
Improvvisamente un flash: "Giorgia", mi dissi.
Era venuta da me il 30 dicembre scorso, presentandosi come una vecchia compagna di Liceo di cui non ricordo quasi nulla.
"Cosa fai a Capodanno?", mi aveva chiesto, avvicinandosi con fare timido al mio tavolino.
L’avevo guardata, sollevando appena lo sguardo dalle volute colorate della tazzina da caffè. Non mi piace essere disturbato mentre bevo il caffè; neppure da una bella ragazza.
"Sai, ieri Luca se ne è andato."
Avevamo parlato un po’: aveva ricordato i "bei vecchi tempi" …così lei diceva, ma io non ricordavo assolutamente nulla di bello in quegli anni odiosi e stantii. Dopo un po’ mi aveva parlato della sua vita dopo il Liceo: impiegata nell’Ufficio Relazioni col Pubblico di un Comune dei paraggi, sessualmente frustrata da un impiegato di vent’anni più vecchio di lei, aveva spesso cercato di rivolgermi la parola, senza mai sentirsi considerata.
E’ probabile. Non esco molto di casa, e fuori di casa ho qualche considerazione di non più di altre tre persone.
Tutt’intorno alla tazza correva un fregio precolombiano, a colori vivissimi: merito della mostra dedicata ai Maja di Palazzo Grassi.
Mi aveva chiesto di me: cosa facevo sempre solo al banco del Barrumba, perché non parlavo mai con nessuno di quello che scrivo (perché avrei poi dovuto parlarne al bar, questo solo lei lo sapeva), con chi vivevo, ecc.
"Ecco, lo sapevo: non è un gran modo per conquistare la tua simpatia, vero?" Si era interrotta bruscamente.
Sollevai gli occhi dalla tazza per la seconda volta da quando mi era venuta vicino. Stava per andarsene.
"Bourbon e Cola?" chiesi.
Mi aspettavo una reazione del tipo "Sei pazzo? Alle 9:00 del mattino?". E’ una specie di test psicologico, al quale mi capita spesso di sottoporre le persone che mi stanno intorno.
Invece disse soltanto: "Volentieri".
Finalmente sapevo cosa fare a Capodanno.
Aveva superato la prima prova. Presi i due bicchieri, che nel frattempo il previdente Mingo aveva preparato senza che io chiedessi nulla, e la portai nella saletta del retro. Ci sedemmo a tavolino e cominciammo a parlare della sera del giorno seguente.
Era priva di idee clamorose, ma dalla sua parte aveva un innato senso di repulsione per le feste in grande stile, tipo pub, discoteca o cose simili.
"Allora?", mi chiese dopo un po’, accorgendosi che la mia mente aveva già cominciato a vagare.
Mi piaceva. Aveva pronunciato quelle tre sillabe in modo perentorio, reclamando il suo diritto ad essere ascoltata; senza protagonismo, ma con convinzione.
"C’è un rifugio a pochi chilometri dalla cima del Corno alle Scale. Lo prenoto da un paio di anni. Il primo anno sono andato a festeggiare io solo. L’anno scorso sono venuti con me due amici di infanzia. Vuoi venire tu, quest’anno?"
"Sì": un altro punto a suo favore.
Così eravamo partiti.
Senza abiti da milioni. Senza tavoli prenotati nei locali più "in" d’Italia.
Solo jeans, maglione di lana e uno zaino con il cambio di lenzuoli e la cena. Quasi fossimo due scout un po’ "sui generis".
Mi aveva dato una mano a mettere in ordine e a fare fuoco. Fuori nevicava e la legna era umida: non fu un impresa da poco.
Risotto ai funghi, carne ai ferri, vino rosso …tutto perfetto.
Avevamo parlato e bevuto, molto. Ora ero io a guidare le danze, ora lei mi strappava lo scettro, ma sempre con un certo stile.
Non aveva avuto fretta di correre a letto, ma ad un certo punto una folata aveva spalancato la finestra che avevo lasciato accostata per consentire il ricambio. Mi ero alzato per andarla a chiudere e le ero crollato addosso, non troppo elegantemente in verità, trascinandola a terra. Anche lei non era in perfette condizioni e restammo qualche minuto avvinghiati a terra, immobili, nell’attesa che il più sobrio desse inizio al processo di liberazione. Poi, visto che non accadeva niente, all’unisono, avevamo deciso che era venuto il momento di fare l’amore.
Tra le fiamme del camino e lo spiffero gelido della finestra aperta ci eravamo rotolati sul pavimento finché non fummo sazi, alternando la pelle d’oca al sudore più violento.
Quando il freddo aveva cominciato a farsi insopportabile, mi ero alzato, avevo chiuso la finestra e preso la bottiglia di Berlucchi dal tavolo.
"E’ ora del brindisi." avevo detto togliendo la gabbia di metallo.
"Perché? Che ore sono?" mi aveva chiesto lei riassettandosi alla meglio.
"E che cazzo ne so?"
Le avevo dato una mano a rialzarsi, fidandomi più dell’abitudine alla posizione eretta che del precario equilibrio del momento.
La cosa più faticosa era stata salire le scale, per raggiungere la freddissima stanza da letto.
Avevo stappato la bottiglia quando eravamo già avvolti nelle coperte.
L’eruzione scaturita dalla bottiglia aveva scatenato nuovi giochi e nuovi desideri, e da allora non ricordavo più nulla.
17:45. Buona media: dopo neanche tre minuti, eccomi di nuovo al timone della mia vita.
Sul comodino di fianco a me c’è un bicchiere da whisky pieno di una sostanza scura. Porto il bicchiere alle labbra e assaggio …Bourbon e Cola, e alla temperatura ideale, nonostante la Coca si un po’ svanita.
La prima secca del ’99.
Mi guardo attorno.
La stanza è perfettamente illuminata dalla luce solare che entra di riverbero dalla finestra. Chi vuoi che fosse in grado di chiudere gli scuri, ieri sera?
E’ freddo, e ad ogni respiro fumante mi sembra di essere una sorta di drago, ma il mio torso che esce nudo dalle coperte non risente dell’aria gelida. Prodigi dell’alcool.
Fuori ha smesso di nevicare.
Giorgia è perfettamente immobile, al mio fianco. Non sembra essersi accorta del mio risveglio. Seguendo il profilo della sua schiena, scopro lentamente il suo corpo nudo, fino al ginocchio.
"Ho freddo, cazzo!" Si alza di scatto, mi strappa le coperte di mano e si ricopre, riaccucciandosi placidamente.
Un gran bell’inizio d’anno.
Sasso Marconi, 5/01/99
Favole. Altre favole senza senso.
Mi hanno chiamato, al telefono. "Buono , eh, il pezzo …ma non si intona molto con la linea della nostra produzione. Sembra scritto da Calvino, per carità, in persona; ma sai il direttore come è fatto: troppo letterario, poi il pubblico ci accusa di snobismo… Mi spiace: niente da fare."
Ho riattaccato, senza neppure salutare. Chi cazzo avrei dovuto salutare, del resto?
Penso che il tizio dalla voce suadente, quasi fosse un dj della notte, invece che un fottuto scribacchino da riviste, dormirà lo stesso. Ora, nella sua testa, sul mio nome è già calata una spugna imbevuta di acido, e può riprendere a scrivere le sue quattro merdate sulla vita nel Kalahari.
Ma mica c’è mai stato, lui, nel Kalahari. Parla delle tribù nomadi, delle escursioni termiche e di tutte quelle cose belle che ormai puoi leggere anche su di un qualsiasi manuale di geografia per le scuole Medie, e non se ne vergogna.
E, del resto, alla gente piace così. Perché non se ne accorgono mica, loro, di avere già letto quella roba su di un libro di scuola.
Dicono: "Pensa che vita, ‘sto tizio: sempre in viaggio…" La voce della moglie riecheggia dalla cucina: "Sai cosa farei io, se tu fossi sempre in giro? Aspetterei che tu mi mandassi un bel po’ di quattrini, e mentre ti trovi in qualche buco sperduto, fuggirei ai Caraibi con uno dei California Dream Men. Lo farei spogliare per me tutte le sere, mentre tu ti diverti con qualche bambina in Tailandia, porco." E poi riprenderebbe a stirare, magari sorridendo, facendo finta di aver detto quelle cose per scherzo. Ma lei lo sa dove va suo marito col suo amico, quello che non gli è mai piaciuto, ma che sembra divertire tanto il suo Carlo.
Intanto il tizio del giornale continua a scorrere i suoi libri di scuola e a scrivere robe che possano piacere alla gente, senza sapere a cosa servano davvero i suoi articoli.
"L’importante è non farla pensare, la gente!" Ripeteva sempre il mio professore di inglese.
Era un tipo a posto. Insegnava inglese, ma non come tanti che non se ne fregano minimamente di cosa tu voglia fare di quelle quattro parole che ti hanno insegnato. Aveva scritto per alcuni anni su di un giornale inglese, di Londra, per aiutare la sua famiglia a pagargli gli studi. Niente di particolarmente elevato: annotava i programmi televisivi della settimana successiva, senza tanti fronzoli. Solo: "Questo è un film da vedere!". Oppure: "Questo è un film indiano …cosa vuoi che ne sappiano gli indiani di cinema?" Lui lo sapeva che l’India era il maggior produttore mondiale di film, ma faceva finta di niente. "Mai raccontare ad un inglese che gli indiani sono più bravi di loro in qualcosa!" diceva "Puoi parlargli di artigianato, di filosofie orientali, ma non citare mai niente di serio. Come il cinema o il tè." Poi scoppiava a ridere, una risata calda e avvolgente.
Quando aveva saputo che volevo fare il giornalista, mi aveva preso in simpatia e, anche se i miei voti non accennavano a migliorare dalla palude in cui erano sprofondati, mi invitava spesso a casa sua. Abitava da solo, e amava bere. Anch’io. Le nostre conversazioni, me le ricordo per meno di metà: penso che la metà che ha maggiormente influenzato la mia vita sia quella che faccio fatica a riportare alla coscienza. Non so se riuscirete a capirmi. Avete presente quando, davanti ad una scelta importante reagite d’istinto e subito vi viene in mente una persona? Mi è capitato spessissimo, e dopo la fatica della scelta c’era sempre il suo faccione sorridente e un po’ rubizzo che mi guardava compiaciuto. "Bravo!", sembrava dirmi. Non era il suo spirito, ma il suo ricordo che mi aveva guidato.
Quando ho consegnato il pezzo alla portineria dell’editore, ieri, lui era con me: "Ti caccerai nei guai…", sembrava dire scuotendo la testa.
Una volta mi aveva raccontato di aver scritto un bellissimo pezzo su Good morning, Vietnam, quel film da ridere dove c’è Robin Williams, il tizio che faceva Mork, che fa il dj in Vietnam. Non è un film di cui si possa solo dire: "Umorismo e intelligenza: consigliato." Così aveva cercato di spiegare perché, secondo lui, valeva la pena investire due ore del proprio indaffaratissimo tempo per vederlo. "E’ ora di alternare alla sensibilità continentale, anche un critico più anglosassone …sa: perché la gente non si annoi…" Sono sicuro che anche lui aveva riattaccato il telefono, e si era andato a bere le sue ultime sterline in un pub irlandese. Poi era tornato a Bologna e aveva lavorato come commesso in un negozio di calzature per qualche mese, prima di fare il professore di inglese.
"L’importante è non farla pensare, la gente!"
Il proprietario del negozio era molto contento di lui. Non c’erano molti trentenni che parlassero bene l’inglese e che prendessero sul serio anche un impiego part-time da commesso. Gli piaceva tanto che aveva cominciato a dargli una percentuale sulle vendite che riusciva ad effettuare, di nascosto dagli altri, che tanto la sera andavano via appena finito il turno, come se il negozio fosse sul punto di crollare.
Così aveva cominciato ad approfittare della sua conoscenza dell’uomo.
"Non so se sia giusto prendere in giro uno stupido, ma non credo sia immorale vivere sulla stupidità della gente. Lo è se non hai mai provato a cambiarla, ma quando è troppo…"
Inoltre tutto aveva un’immediata traduzione in moneta, ed era un momento in cui lui ne aveva molto bisogno.
Aveva una sua etica professionale, però. Non avrebbe mai preso in giro una persona anziana, ad esempio. Però, quando arrivava il classico universitario tronfio, specie se aveva anche un po’ di puzza sotto il naso, cominciava lo show. Non era un negozio grande, e non teneva tantissimi modelli, né tantissime misure. "Vorrei un 41 e1/2" diceva il cliente dopo aver provato il 41: era un pessimo inizio. "A certa gente non devi neanche perdere tempo a spiegare che certe case le mezze misure non le fanno, o che in una piccola bottega non puoi tenere tutta la produzione mondiale. Così cominciavo a portare giù una marea di scarpe. Lo seppellivo di scarpe. Gliene facevo provare solo alcune, la maggior parte non la toglievo neppure dalla scatola, e intanto gli raccontavo la differenza di stile e di calzatura tra i vari modelli. Poi gli riproponevo, quando lo vedevo già distolto dal problema della misura, il 41 da cui eravamo partiti. Andava benissimo. Con la maggior parte della gente non importava neppure lasciar passare più di qualche minuto."
Mi piaceva.
Amava bere, però, l’ho già ricordato. Una bella sera, dopo avermi riaccompagnato a casa dopo le solite tre orette di recupero in osteria, era finito abbracciato ad un palo della luce, cercando di evitare un altro ubriaco che aveva perso anche lui il controllo della sua macchina, in asse attrezzato. Anche l’altro era uscito di strada, ma non si era fatto niente. La polizia aveva trovato quell’altro che tirava pugni su quanto rimaneva del cofano della sua Uno blu, urlando con tutto il fiato che aveva di uscire, se ne aveva il coraggio. "L’avrebbe massacrato di botte", mi ha raccontato uno che si era fermato a guardare la scena.
Era già morto.
Sasso Marconi. 14/01/99